giovedì 29 febbraio 2024

La Grande Muraglia Verde: un progetto ambizioso per contrastare la deforestazione in Africa


La Grande Muraglia Verde è una barriera di alberi lunga quasi ottomila chilometri e larga quindici che attraversa in largo il continente africano, dal Senegal fino all’Oceano Indiano. 
Si tratta di un progetto che attualmente vede coinvolti ben undici Paesi africani e che potrebbe riconvertire circa cento milioni di arido deserto in terreni coltivabili.


Prospettive non solo ambientali ma anche economiche

Nel corso dell’One Planet Summit per la biodiversità, che si è tenuto a Parigi l’11 gennaio 2021, sono stati stanziati circa 14.3 miliardi di dollari al fine di accelerare gli sforzi per ripristinare la terra degradata, salvare la diversità biologica, creare posti di lavoro verdi e rafforzare la resilienza della popolazione saheliana. 
La riforestazione di milioni di ettari, oltre a rappresentare una strategia ecologia imponente, è una grande opportunità economica per molte comunità africane che basano gran parte del proprio sostentamento su aree rurali. 
Nel concreto, infatti, stando ad alcune stime, i milioni di alberi che verrebbero piantati potrebbero catturare circa 250 milioni di tonnellate di carbonio e creare 10 milioni di posti di lavoro “verdi”.


L'obiettivo principale: la lotta alla desertificazione. Ma non solo...

L'obiettivo principale della Grande Muraglia Verde è la lotta alla desertificazione, ovvero all’ampliamento dei deserti esistenti e la formazione, espansione o peggioramento della sterilità e aridità di vaste zone terrestri. 
Inoltre, sotto il profilo economico-produttivo, la trasformazione di terreno fertile in deserto rappresenta un enorme danno per moltissime aziende che si trovano, nel giro di poco tempo, ad operare in regioni inospitali e improduttive. 
Nel 1994 è stata siglata una convenzione internazionale (UNCCD, Convenzione contro la desertificazione) per cercare di contrastare questo preoccupante fenomeno. 
Tale Convenzione definisce la desertificazione come «il degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali variazioni climatiche e attività umane». 
Tra le principali cause della desertificazione, in parte naturali e in parte dovute all’opera dell’uomo, si segnalano: la siccità, gli incendi, la deforestazione, l’urbanizzazione, l’inquinamento, lo sfruttamento agricolo troppo intenso, l’erosione provocata dalle piogge intense, lo sfruttamento eccessivo dei bacini acquiferi superficiali e sotterranei. 
La Grande Muraglia Verde rappresenta un tentativo per arginare e, nel tempo, arrestare quella che è diventata a tutti gli effetti una delle principali piaghe ecologiche del nostro tempo.


Dagli albori del progetto ai tempi nostri


Nel 1952 biologo inglese Richard St. Barbe Baker ipotizzò per la prima volta la necessità di costruire una barriera verde per impedire al deserto del Sahara di estendersi. 
Il pensiero dello studioso era occorreva realizzare una lunga fascia alberata larga 50 km per contenere il deserto, che già negli anni Cinquanta del secolo scorso veniva percepito come una potenziale minaccia ambientale. 
L'idea di Barbe Baker divenne realtà solo nel 2007, ovvero 55 anni dopo la sua iniziale teorizzazione
Lanciato dall’Unione Africana, il progetto venne sostenuto fin da subito dall’Onu e finanziato dalla Banca Mondiale e da altre organizzazioni locali e internazionali con un esborso iniziale di circa tre miliardi di dollari
Ad oggi il Sahara è il più grande deserto subtropicale al mondo, con un’estensione di circa nove milioni di chilometri quadrati, in cui vivono 232 milioni di persone. 
La Grande Muraglia Verde si spera sia  completata entro il 2030. Questo è il limite temporale fissato dall’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile. 
Secondo alcuni report presentati dalla FAO, per arrestare il degrado del suolo è necessario riqualificare dieci milioni di ettari all’anno
È un ritmo certamente serrato, ma che sarebbe in grado di modificare in positivo la vita di decine di milioni di persone, oltre che di arrestare una delle più gravi crisi ambientali odierne.

 
Lo stato attuale dei lavori

I lavori di riforestazione inquadrati nella costruzione della Great Green Wall sono iniziati nel 2008. 
Il Senegal, secondo il New York Times, è diventato uno dei Paesi leader del progetto, avendo piantato una quantità notevole di alberi lungo una striscia di più di 530 chilometri, a nord del Paese, per un costo di 6 milioni di dollari.
I paesi coinvolti nel progetto sono: Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan, Etiopia, Eritrea e Gibuti
Attualmente è stato piantato circa il 20% della Grande Muraglia Verde: si parla di una striscia lunga circa 530 chilometri. 


Fonti

https://www.geopolitica.info/grande-muraglia-verde-sfida-ecologica-nostro-tempo
https://www.green.it/grande-muraglia-verde-africa/

martedì 27 febbraio 2024

Meat free week, la campagna di WWF per una settimana senza mangiare carne!


Dal 26 febbraio 2024, per un'intera settimana WWF lancia la campagna Meat free week, ovvero un insieme di azioni concrete per ridurre il nostro impatto ambientale e migliorare la nostra salute.
Il contenuto della proposta è di fare una settimana senza mangiare carne.


Gli allevamenti intensivi...


In Europa più dell’80% della carne proviene da allevamenti intensivi.
In Italia addirittura l’85% dei polli e oltre il 95% dei suini sono allevati intensivamente, e quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo libero. 
L'impatto sull'ambiente è devastante, come quello sulla nostra stessa salute. 
In Italia infatti si registra la maggiore resistenza agli antibiotici in Europa, proprio a causa dell’eccessivo utilizzo di medicinali veterinari negli allevamenti.


...distruggono il pianeta e la nostra salute

Gli allevamenti intensivi sono una delle principali cause del cambiamento climatico, responsabili del 16,5% delle emissioni globali di gas serra (cifra paragonabile agli effetti dell’intero settore dei trasporti, considerando treni, macchine, aerei e camion) e del 60% delle emissioni dell’intero settore agroalimentare. 
Gli allevamenti intensivi consumano fino al 10% dell’acqua dolce del Pianeta e fino al 30% delle terre non coperte dai ghiacci. 
Altro annosa questione è la deforestazione provocata dall’aumento, a livello globale, della domanda di carne: il 60% delle foreste pluviali (in Amazzonia questa percentuale arriva al 70%) viene abbattuto proprio per ottenere pascoli e per coltivare grandi quantità di vegetali (soprattutto soia e cereali) destinati all’alimentazione animale. 
Tutto ciò cauda la perdita di habitat e specie selvatiche e l'aumento dell’effetto serra responsabile del riscaldamento globale. 
Circa le condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi sono spesso pessime, con luoghi sovraffollati, luce artificiale e spazi di movimento ridotti (se non nulli).
In ultimo l’insostenibilità degli allevamenti intensivi è evidente anche dal punto di vista di efficienza nutrizionale: nonostante il 77% dei terreni agricoli mondiali sia dedicato all’allevamento, questi generano solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine totali consumate dalla popolazione mondiale. 


Perché la proposta di una settimana senza carne

Se si passasse a una dieta senza carne a livello globale si ridurrebbe del 76% l’uso del suolo legato all’alimentazione, del 49% le emissioni di gas serra legate all’alimentazione, del 49% l’eutrofizzazione (ossia l’eccesso di nutrienti, in particolare composti dell’azoto e del fosforo, nell’acqua e nel suolo) e del 35% l’uso di acqua blu e verde insieme. 
I benefici sarebbero inoltre anche sanitari: se la dieta vegetariana fosse adottata a livello mondiale entro il 2050, porterebbe a una riduzione della mortalità globale fino al 10%, evitando circa 7 milioni di morti all’anno, mentre il veganismo farebbe salire questa stima a 8 milioni
È studiato infatti che l’aspettativa di vita potrebbe aumentare fino a dieci anni in seguito al passaggio a diete più sane. Dunque, perché non provare!”.


Fonti

https://www.wwf.it/pandanews/ambiente/al-via-la-meat-free-week-promossa-dal-wwf/

sabato 24 febbraio 2024

Le piste da sci e Paolo Cognetti


Nel periodo invernale uno degli hobby principali (di chi può permetterselo) è lo sci, con magari annessa la settimana bianca.
Negli ultimi inverni la carenza di neve ha reso gli impianti attualmente funzionanti di difficile gestione. I costi sono elevati e il periodo di guadagno si sta restringendo sempre di più.
Eppure, vuoi per eventi internazionali (per esempio le prossime olimpiadi invernali con il progetto della costruzione della pista del bob) o per non annoiare gli sciatori, la creazione di nuove piste è all'ordine del giorno.
Esse, va ricordato, sono "sfruttate" pochi mesi (o settimane all'anno) e comportano l'abbattimento di migliaia di alberi per chilometro di pista, nonché la modifica del suolo e lo sconvolgimento dell'ambiente natura preesistente.
Ne vale la pena?


Ecco il pensiero di Paolo Cognetti sulle piste da sci 


Ma lo sanno gli sciatori come si fa una pista da sci? 
Io credo di no, perché altrimenti molti di loro non sosterrebbero di amare la montagna mentre la violentano.
Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è un acquitrino; i torrenti vengono derivati o incanalati, le rocce fatte saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo dritto e senza ostacoli. 
Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile affrontare l’inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato un enorme bacino, riempito con l’acqua dei torrenti d’alta quota e con quella dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l’intero pendio vengono posate condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati; nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l’altro tirati cavi d’acciaio; all’inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d’arrivo dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i fuoristrada. 
Davvero non lo sanno? Non vedono che non c’è più un animale né un fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio di montagna dove passano loro?”


Chi è Paolo Cognetti 

Nato a Milano nel 1978, si è laureato in matematica e poi diplomato in Sceneggiatura alla Civica Scuola di Cinema nel 1999.
Paolo Cognetti è autore di alcuni documentari: “Vietato scappare”, “Isbam”, “Box”, “La notte del leone”, “Rumore di fondo”.

Le sue opere letterarie sono: Sofia si veste sempre di nero (minimumfax 2012), Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo 2013) e Senza mai arrivare in cima (Einaudi 2018 e 2019), La felicità del lupo (Einaudi 2021 e 2023) e Giú nella valle (Einaudi 2023). 
Le otto montagne (Einaudi 2016 e 2018), è stato tradotto in oltre quaranta paesi e ha vinto il Premio Strega, il Prix Médicis étranger e il Grand Prize del Banff; il suo adattamento cinematografico, diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, ha vinto il Premio della giuria del 75° Festival di Cannes e quattro David di Donatello, tra cui quello per il Miglior film.

Ecco un ultimo pensiero di Cognetti:
"Strano che così poche persone vengano nei boschi a vedere come il pino vive e cresce sempre più in alto, sollevando le sue braccia sempreverdi alla luce – a vedere la sua perfetta riuscita. 
I più invece si accontentano di guardarlo sotto forma delle tavole portate al mercato, e considerano quello il suo vero destino. 
Ma il pino non è legname più di quanto lo sia l’uomo, ed essere trasformato in assi e case non è il suo impiego autentico e più elevato: non più di quanto lo sia per l’uomo essere abbattuto e trasformato in letame. 
C’è una legge più alta che riguarda il nostro rapporto con i pini quanto quello con gli uomini. 
Un pino abbattuto, un pino morto, non è un pino più di quanto il cadavere di un uomo sia un uomo. 
Si può dire che colui che ha scoperto i pregi dell’osso di balena e dell’olio di balena abbia scoperto il vero scopo della balena? O che colui che abbatte l’elefante per l’avorio abbia visto l’elefante? 
Questi sono utilizzi meschini e accidentali, proprio come se una razza più forte ci uccidesse allo scopo di fare bottoni e pifferi con le nostre ossa, perché ogni cosa può servire a uno scopo più vile oltre che a uno più elevato. 
Ogni creatura è migliore da viva che da morta, uomini e alci e alberi di pino, e colui che lo comprende appieno preferirà conservarne la vita anziché distruggerla.


Fonti

http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2020/11/ma-lo-sanno-gli-sciatori-come-si-fa-una-pista-da-sci/
https://www.google.com/amp/s/www.montagna.tv/122400/paolo-cognetti-il-bosco-e-prima-di-tutto-vita/amp/