sabato 9 luglio 2022

I curdi (I° parte): gli ultimi cento anni del più grande popolo senza stato


I curdi si stima siano tra i 30 e i 40 milioni: si tratta del più grande popolo al mondo senza nazione, sparso su un vasto territorio montagnoso tra gli odierni Turchia, Siria, Iran e Iraq.
La storia dei curdi è un insieme confuso di discriminazione, persecuzione e alleanze tradite, che ne hanno decretato la situazione attuale.
Il Kurdistan infatti, inteso come “Paese dei curdi”, non esiste su alcuna mappa ufficiale.
Le persone vivono divise principalmente tra Turchia (20%), Iraq (15-20%), Siria (10%) e Iran (8%). Non sono né arabi, né persiani, né turchi. Sono la quarta etnia del Medio Oriente. Oggi in maggioranza musulmani sunniti, parlano una lingua di origine indoeuropea.
Con Kurdistan ci si riferisce a un’area geografica per lo più montuosa, vasta oltre 450 mila chilometri quadrati, compresa entro i confine dei quattro paesi sopra citati. Per questo si parla di Kurdistan turco, iracheno, siriano (Rojava) e iraniano. Se fosse unito politicamente, sarebbe tra gli stati più ricchi della regione, considerate le materie prime di cui dispone, dal petrolio alle risorse idriche.


La nascita della questione curda

La nascita della “questione curda” coincide con il tramonto dell’Impero Ottomano e la fine della Prima guerra mondiale. Alla spartizione della Sublime Porta ad opera di Francia e Regno Unito (accordo di Sykes-Picot, 1916), è seguito lo smembramento dei curdi tra i territori delle attuali Turchia sudorientale, Siria nordorientale, Iraq settentrionale e Iran occidentale.
A dare speranza alle aspirazioni nazionaliste di questo popolo, sono state paradossalmente le stesse potenze alleate quando, nel 1920, hanno siglato il Trattato di Sèvres, con cui si definivano i nuovi confini della Turchia. Si tratta dell’unico documento giuridico-politico internazionale che abbia previsto la creazione di uno stato curdo indipendente.
Questa ipotesi è stata fortemente osteggiata dal governo nazionalista guidato da Mustafa Kemal Atatürk. L’accordo è stato così stralciato e sostituito dal Trattato di Losanna (1923), che ha cancellato completamente il riconoscimento delle rivendicazioni curde.


La lotta curda per l'indipendenza

I primi a lanciarsi nella lotta armata per l’autonomia sono stati i curdi iracheni, sotto la guida del clan Barzani. Iniziata negli anni ’30, ha visto una svolta negli anni ’70 ed è culminata nel 1991 con l’istituzione del Kurdistan iracheno. L’ultimo atto di questo travagliato percorso è stato il referendum per l’indipendenza del 2017.
A esprimersi a favore dell’indipendenza era stato il 92% dei partecipanti.
La nascita della regione autonoma è passata attraverso i tradimenti degli Stati Uniti e le tragedie causate da Saddam Hussein. Risale agli anni ’90 la dura repressione della rivolta curda, sostenuta dal presidente statunitense George W. Bush, da parte del dittatore iracheno, che già nel 1988 si era macchiato dell’attacco chimico di Halabja, in cui sono morti 5 mila curdi.


È del 1978, invece, la comparsa sulla scena politica turca del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Nato con l’obiettivo di creare una repubblica indipendente curda, è entrato ufficialmente in guerra con Ankara nel 1984.
Il suo fondatore, Abdullah Öcalan, sta scontando dal 1999 l’ergastolo a İmralı, l’isola-penitenziario al largo di Istanbul.
Il Pkk, per aver imbracciato la lotta armata, è considerato a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e, dal 2002, anche dall’Unione europea. Dopo una tregua storica, firmata nel 2013 da Öcalan e Recep Tayyip Erdoğan, attuale presidente turco, all’epoca primo ministro, la guerra interna è ripresa nel 2015.
Il cessate il fuoco è terminato a luglio di quell’anno, dopo che un attentato suicida, attribuito allo Stato Islamico, ha provocato la morte di 33 giovani attivisti curdi a Suruç, vicino al confine siriano. Il Pkk ha accusato le autorità turche di complicità e da quel momento hanno ripreso in mano le armi. La risposta di Ankara non si è fatta attendere.


I curdi e la guerra in Siria

In seguito allo scoppio della guerra siriana nel 2011, nella parte settentrionale del paese si sono creati i presupposti per la nascita della Federazione del Nord della Siria, una regione non ufficialmente riconosciuta, nota anche con il nome di Rojava, dove vivono, secondo le stime, tra 500 mila e 1 milione di curdi.
Il Kurdistan occidentale ha attirato la simpatia di diversi stati occidentali per l’esperimento politico e sociale, messo in atto dal Pyd (Partito dell’unione democratica), che si basa sulla teoria del confederalismo democratico formulata da Öcalan e che tra i sui pilastri ha l’emancipazione femminile.
Nel caos del conflitto siriano e di fronte alla presa di potere dell’Isis tra il nord-ovest dell’Iraq e il nord-est della Siria, gli Stati Uniti, nel 2014, hanno deciso di puntare sui combattenti curdi per fermare l’avanzata jihadista. A riaccendere i riflettori internazionali sulla “questione”, dunque, il loro ruolo nella lotta contro lo Stato Islamico, grazie alla quale i curdi siriani sono riusciti a ritagliarsi quell’autonomia da sempre negata.
In particolare, nel Rojava, a respingere le incursioni del’Is sono state le milizie dell’Ypg, Unità di Protezione Popolare, il braccio armato del Pyd, all’interno del quale le donne hanno giocato un ruolo decisivo, anche dal punto di vista mediatico. Per la Turchia, però, l’Ygp e il Pyd sono rami del Pkk e per questo considerati anch’essi organizzazioni terroristiche.

A causa al ritiro del contingente americano del 2019 dal Kurdistan occidentale, Erdogan ha avuto campo libero per azzerare il progetto politico indipendentista del Rojava. Questo il quadro entro il quale comprendere l’ultimo attacco sferrato da Ankara nel nord della Siria. L’operazione lampo, ribattezzata “Sorgente di pace”, ha provocato centinaia di vittime e 160 mila sfollati.
Dopo due settimane, a Sochi, su spinta del presidente russo Vladimir Putin, è stata firmata una tregua che ha ridefinito gli equilibri nella regione: alla Turchia è stata concessa la possibilità di creare una safe zone, una “zona sicura”, dove trasferire i 3,6 milioni di rifugiati siriani che Ankara ha accolto dall’inizio del conflitto in Siria, mentre i curdi, dopo essere stati abbandonati dagli Stati Uniti, hanno trovato un alleato nel dittatore siriano Bashar al-Assad.

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