Se solo un attimo riuscissimo a fermarci ed analizzarci, o addirittura a vederci da fuori con gli occhi di un estraneo, riusciremmo a capire di più sul nostro rapporto col cibo.
Il cibo è molto nella nostra vita. Il cibo è molto della nostra vita.
Il cibo ci rappresenta, ci caratterizza, come persone e come comunità.
La quantità di cibo che consumiamo, in egual modo, dice molto su di noi e sulla comunità di cui facciamo parte.
Il Mercato (con la sua alleata pubblicità) ci vuole mangiatori mai sazi. Ci vuole obesi, mai disposti a rinunciare.
Ci vuole poco lucidi, guidati dall'appetito divorante, assuefatti da cioccolato e patatine fritte.
Ci vuole sopperire alle insoddisfazioni di una vita da macchine abbuffandoci di take away e pizza surgelata maxi, fumante in dieci minuti.
Ci vuole fare la lotta al supermercato per la quantità maggiore al prezzo minore, per lo sconto super, per la promozione della settimana.
Senza farci chiedere nulla di più. Nulla su cosa voglia dire tutto ciò, su cosa finisce nel carrello, su quanto finisce nel carrello.
La società si adegua e si plasma al Mercato.
E allora si mangia (anche se si pieni) e si beve, tutti insieme, per un'ultima (ma solo sulla carta) ricerca di piacere a cui non si riesce a rinunciare; a questa ne segue un'altra, e poi un'altra ancora.
Antipasto, primo, secondo, dolce, frutta, dessert, digestivo. Una ruota che nelle feste (che dovrebbero rappresentare la vita, nonché il suo elogio e la sua consacrazione, quali matrimoni, nascite, compleanni, ricorrenze) viene esaltata e allargata a tutti, in un macabro rituale di abbondanza a dispetto di tutto e tutti (tanto poi il fisico si rimette in ordine, con corsa e cyclette).
Si assiste al trionfo della cultura della ricerca della soddisfazione del piacere (individuale e collettivo), che scombussola i reali bisogni (del mangiare per sopravvivere) e che intacca il rapporto con il cibo stesso.
La frase "e c'è gente che muore di fame" diventa lontanissima, quasi patetica.
Di contro, la lotta al fuoco del Mercato sembra impotente. Devastante nel suo essere senza voce di fronte alla differenza di livelli di forza.
Il senso di colpa di fronte alla panza e alle cosce lievitanti diventa un continuo compagno-nemico, amato e odiato (perchè compreso nel pacchetto) e respinto a colpi di cheeseburger e coca.
E accanto all'appetito continuo e alla rincorsa per sedarlo, tipico della "nuova" società occidentale liberale, accompagnato dal trionfo di fitness per rimettersi in forma e di libri di ricette per creare piatti sempre più elaborati, si assiste alla decadenza della cultura e del rispetto verso e per il cibo.
Cadute morali che si devono confrontare, per di più, con la fame del resto della popolazione mondiale e con le ripercussioni ecologiche che gli abusi alimentari del Nord hanno sul Pianeta.
D'altronde, pensando un secondo, è chiaro che le quantità alimentari di cibo mangiato incidano su quelle disponibili agli altri.
Se io mangio di più il mio amico ha di meno (anche se con grandi quantità a disposizione la questione non è un vero "problema"); figuriamoci se un popolo mangia di più in un sistema globale ove può accedere alle risorse degli altri (occorre solo avere i soldi per comprarle). La torta globale è una sola. Fetta doppia di qua, fetta a metà di la.
Ed è chiaro che incidono anche sul Pianeta e sugli ecosistemi che lo compongono. Il Mercato internazionale fa circolare ovunque le sue merci: ananas africani si mischiano a riso cinese, a salsa di soia giapponese e a manzo sudamericano. Ognuno dei seguenti cibi è il prodotto di un ciclo che spesso si ignora (o si fa finta di ignorare) e che spesso distrugge e schiavizza popoli e ambienti (si pensi solo alle monocolture africane di arachidi, a quelle sud americane di soia, a quelle asiatiche di riso, a quelle nord americane di mais, a quelle europee di barbabietole da zucchero e di frumento).
Forse solo pensando così per un minuto (e non per un solo secondo), e poi un'ora, un giorno, una vita, la visuale e il conseguente approcio verso la quantità di cibo da mangiare possono cambiare.
Questa può rivelarsi molto più importante di un semplice legame con la soddisfazione del desiderio.
Mangiar bene, mangiar sano, ma soprattutto mangiar in giusta quantità, possono tornare a essere i nuovi obbiettivi, con una visione più orientata al nostro benessere e meno alla ricerca della soddisfazione dell'ultimo sapore.
La classica preghiera pre-pranzo può trasformarsi nella scelta consapevole di quanto mangiare, in contrapposizione alla visione egoistica di alzarsi da tavola con il pancione pieno da scoppiare (con nel pacchetto una nottata a cercare di digerire).
Certo, scelta consapevole e nuove abitudini (maggior ponderazione di dolci, grassi e fritti) possono diventare impegnativi e difficili da attuare nel presente (pensare che sarebbe bello cambiare è un conto, farlo è un altro), ma che possono consegnare nuovi orizzonti, di benessere sia fisico che mentale.
Il discorso è sempre la stesso.
Fermarsi e pensare.
Pensare se è giusto riversare le insoddisfazioni della propria vita nel cibo. E se si vuol vivere per mangiare o se si vuol mangiare per vivere.
Pensare se è giusto riversare le insoddisfazioni della propria vita nel cibo. E se si vuol vivere per mangiare o se si vuol mangiare per vivere.
E che non ci siamo solo noi, che non c'è solo il nostro popolo e che c'è un solo pianeta (sembra demagogia, ma se si pensa da dove arrivano parte dei cibi che consumiamo diventa realtà).
Che cambiare (le abitudini sbagliate e tutto ciò che non dà salute) si può e si deve.
Che solo cambiando (nel caso tornando a mangiare il giusto) si può mettere la base per un futuro migliore.
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