giovedì 26 marzo 2015

Il Bangladesh e il business del gambero (II° parte): un popolo diventato eco-profugo


Gli eco-profughi o vittime del clima hanno fatto la loro comparsa sui media (italiani e non) solo in tempi recentissimi e sono la “conseguenza” di un problema serio e sottovalutato. 
La prima definizione del termine, che si deve all’allora direttore dell’UN Environment Programma Essan El-Hinnawi, è del 1985. 
L’environmental refugee, dice El-Hinnawi, è una “persona che ha dovuto forzatamente abbandonare la propria dimora, in modo permanente o temporaneo, a causa di grandi sconvolgimenti ambientali (naturali e/o indotti dall’uomo) che hanno messo in pericolo la sua esistenza o danneggiato seriamente la sua qualità di vita
Questa definizione, sebbene criticata per la sua generalità, è tutt’ora largamente condivisa e rappresenta un punto di partenza ricorrente nei ragionamenti sui profughi ambientali. Lo stesso accordo non si ritrova quando dal piano terminologico si passa a quello pratico, quando si affronta cioè la questione del “trattamento” politico e umanitario da riservare agli eco-profughi. 
Tra gli addetti ai lavori ci sono tre orientamenti prevalenti: chi ritiene che agli eco-profughi vada accordato lo stesso status dei rifugiati di guerra e sollecita una modifica della Convenzione di Ginevra in questa direzione; chi li considera un caso a se stante, meritevole di una protezione specifica; chi non riconosce loro una particolare specificità e pensa che essi vadano considerati come “normali” migranti economici. Nessuna di queste posizioni ha la forza per imporsi sulle altre, ma tutte e tre contengono nuclei di verità. 
È innegabile che gli eco-profughi necessitino di una protezione, specifica o meno. Ugualmente innegabile è che, in molti casi, essi non siano distinguibili dai migranti spinti da necessità economiche, e a volte anche dai profughi “tradizionali”.

Il numero di eco-profughi, indipendentemente da come li si voglia considerare, negli ultimi 50 anni è cresciuto vertiginosamente: milioni di esseri umani, provenienti soprattutto dai paesi del cosiddetto terzo mondo, che si riversano su un occidente sempre più affaticato e in crisi e a sua volta – anche se in modo meno massiccio – produttore di eco-profughi (Katrina docet). 
Dietro questo aumento, prescindendo dai fattori non antropici, ci sono responsabilità globali e in molti casi occidentali (pensiamo al global warming) e altre specifiche dei singoli paesi “esportatori” di eco-profughi. Secondo l’Institute for Environment and Human Security dell’Università delle Nazioni Unite, il numero dei profughi ambientali nel mondo nel 2010 ha superato la soglia dei 50 milioni (nel 1990 erano la metà). Mentre 340 milioni erano le persone esposte al rischio dei cicloni tropicali e circa 520 milioni quelle minacciate dalle inondazioni. Nel 2050 il numero effettivo degli sfollati potrebbe complessivamente raggiungere i 250 milioni. La stima è del professor Norman Myers del Green College dell’Università di Oxford, ed è considerata una delle più accurate. 
In realtà le previsioni sul numero potenziale di eco-profughi variano molto e vanno prese con beneficio di inventario. 
Come riconosce lo stesso Myers, nessuno oggi può dire con certezza quale sarà l’impatto dei cambiamenti climatici sulla distribuzione della popolazione mondiale.

Negli studi sulle conseguenze del global warming il Bangladesh compare sempre. È infatti uno dei Paesi più a rischio e, in potenza e in atto, tra i massimi produttori di eco-profughi. Myers ha calcolato che da qui al 2050 potrebbe “sfornarne” oltre 26milioni. 
Come è noto, il Bangladesh è a rischio innanzitutto per la sua morfologia e il suo clima: per le sue coste che si trovano al di sotto del livello del mare e per quel suo “galleggiare” su un delta immenso e volubile, esposto a cicloni ed alluvioni sempre più ricorrenti e devastanti. 
È stato calcolato che da qui al 2050 il 6% del terreno della coastal zone andrà perduto. La coastal zone è un mix di mare e terra, lungo 710 km che include circa 250 isolotti e tratti di foresta di mangrovie (nel Sunderbans) e una lunga e ininterrotta spiaggia di sabbia (a Cox’s Bazar). Su essa insistono 19 distretti e vivono almeno 40 milioni di persone: sono tutti potenziali eco-profughi. 
Ma cicloni e alluvioni sono solo una parte del problema. L’innalzamento del livello del mare ha provocato l’aumento della salinità delle acque in tutta la zona costiera e questo ha conseguenze devastanti per l’agricoltura, l’accesso all’acqua potabile, la vita quotidiana delle persone.
Fin qui stiamo parlando delle conseguenze semplici e dirette del global warming. Ma a rendere ulteriormente critica la situazione del Bangladesh ci sono anche fattori specifici: lo ship-breaking praticato in totale deregulation a Chittagong, che sta avvelenando il mare e le persone e contribuendo all’erosione delle coste, il disboscamento, l’urbanizzazione senza regole, l’acquicultura intensiva
Si tratta in prevalenza di pratiche di sfruttamento delle risorse che stanno distruggendo l’eco-sistema, privando il territorio delle sue naturali difese e compromettendo molti equilibri sociali. 

Il 15 novembre del 2007 il ciclone Sidr si è abbattuto sul golfo del Bengala e ha spazzato la coastal zone uccidendo 3500 persone e lasciandone 2 milioni senza casa (creando dunque 2milioni di eco-profughi). In quell’occasione la foresta ha dimostrato di essere un fattore di protezione imprescindibile per il Bangladesh. Gli alberi hanno attutito la forza del vento e protetto l’entroterra. 
Dove invece che foresta autoctona c’erano le piantagioni, molte piante invece sono state sradicate e si sono trasformate in inconsapevoli e ulteriori strumenti di morte. Nella Shrimp Region, dove non c’è più foresta e non ci sono nemmeno piantagioni, ma solo vasche di acquicoltura per chilometri e chilometri, Sidr ha avuto campo libero. Se lo stesso ciclone si fosse palesato 40 anni fa, quando le mangrovie lambivano le città di Khulna e Bagerhat e ricoprivano l’intera zona di ùChokoria, i danni sarebbero stati pressocchè irrisori.
La Shrimp Region comprende i distretti di Satkhira, Khulna, Bagerath e la parte meridionale di quello di Jessore. Circa 190mila ettari di mangrovie e terre fertili, più o meno nel tempo di una generazione, sono stati convertiti in bacini di acquicoltura. Il “raccolto” annuo sfiora le 50mila tonnellate, esportate per l’ottanta per cento in Occidente e per il venti in Giappone. I bangladesi non mangiano i bagda (è il nome locale per i gamberi da acqua salata) che allevano. 
Possono permettersi, al massimo, i golda, i gamberi di fiume. 
La coltivazione intensiva è cominciata all’inizio degli anni ‘80, con la sponsorizzazione di alcune agenzie di sviluppo (come Usaid) e istituzioni finanziarie (come la Banca Mondiale e la Banca di Sviluppo Asiatica). Gli speculatori si mossero in massa per accaparrarsi le terre più adatte all’allestimento di shrimp farm. Dove queste non c’erano, si industriarono a “crearle”: facendo scempio della foresta ed espropriando con qualsiasi mezzo i terreni agricoli.

Le vittime del gambero forse non possono essere considerate in senso stretto vittime del clima, ma dell’ambiente o, meglio ancora, della politica ambientale certamente sì. E, tra esse, chi ha lasciato la propria casa per trasferirsi in occidente o in India o a Dhaka o magari soltanto a pochi chilometri di distanza è sicuramente un eco-profugo, anche se alla decisione di muoversi non è arrivato dopo un evento catastrofico specifico, come un ciclone o un’alluvione, ma per l’impossibilità di provvedere a se stesso e/o alla sua famiglia. Se andassimo a considerare gli altri fattori antropici anticipati in precedenza (a partire dalla distruzione delle foreste) le conclusioni sarebbero con ogni probabilità simili. 
Tali fattori, intrecciandosi agli effetti del global warming, fanno del Bangladesh un paese ad altissimo rischio ambientale e hanno dei pesantissimi risvolti economici. In un contesto come questo, la distinzione tra eco-profughi e migranti economici si mostra nella sua totale impraticabilità. Ma altrove – nel delta del Niger o nelle regioni del Sahel, per esempio – è davvero più facile distinguere? In tutta franchezza ritengo di no. La fragilità economica di una regione è sempre intrecciata con la fragilità ambientale e con politiche di sfruttamento del territorio più o meno disinvolte. 
Ciò, a mio avviso, non deve indurre a una frettolosa equiparazione tra migranti economici ed eco-profughi, che molti governi tra l’altro userebbero come alibi per disinteressarsi alla questione. Al contrario, dovrebbe portare a un ripensamento totale della categoria del migrante, a riconoscere l’universalità di questa figura (oggi più che mai siamo tutti migranti, in atto o in potenza), il suo diritto a essere tutelata. Tutto questo può sembrare utopico ma, in presenza di un problema serissimo e in assenza di soluzioni convincenti, si impone un cambiamento radicale di punti di vista.


Fonte: http://www.corrieredellemigrazioni.it/2014/11/28/profughi-ambientali-caso-bangladesh/

domenica 22 marzo 2015

Il Bangladesh e il business del gambero (I° parte): per capirne qualcosa in più


Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo, ed è anche uno dei più colpiti dalle calamità naturali. Uuragani, tornado e inondazioni colpiscono spesso il paese, che comunque non ha mai perseguito una politica ambientale degna di questo nome. 
Di per se i fenomeni che colpiscono il paese non sarebbero così gravi se non fosse per la deforestazione selvaggiaIl governo da anni accusa i paesi a monte, quali Nepal, India e Bhutan e li ritiene responsabili delle disastrose alluvioni che investono regolarmente le zone del delta del Brahmaputra. Privati della copertura vegetale, l'enorme volume d'acqua che cade durante le stagioni monsoniche, si riversa in bevissimo tempo nel delta, causando inondazioni disastrose. 
In realtà pure il territorio del Bangladesh, che in gran parte si trova sul delta di grandi fiumi che scendono dall’Himalaya, tra cui il Gange e il Brahmaputra, è stato pesantemente deforestato ed è soggetto ad un tasso di erosione altissimo. A questo si aggiungono altri problemi come l'inquinamento.
Le zone costiere o lungo i grandi fiumi dove si pratica la pesca e l'acquacoltura sono altamente inquinate da pesticidi, arsenico di origine naturale, e scarichi industriali. 
Il Bangladesh vanta un record legato alla acquacoltura dei gamberi. Il paese è il quinto importatore mondiale di gamberi di mare. Nel 2007 la produzione è stata di 30 mila tonnellate. Le ultime stime parlano di 50 mila tonn. 
Enormi distese di stagni costieri e baie, un tempo pescosissime, sono state distrutte. I contadini che un tempo coltivavano riso, sono stati scacciati, e chi si oppone viene ucciso (Fonte: Fred Pearce - Confessioni di un ecopeccatore - Edizioni Ambiente sett. 2009). 
E poi i mangrovieti, enormi distese del Sunderban, le foreste di mangrovie appunto, sono state distrutte per sempre. Viene a mancare un importante fattore naturale di protezione contro l'innalzamento del livello del mare e contro le onde di marea. 
Il Sunderban, con i suoi oltre quattromila chilometri quadrati di estensione, è la foresta di mangrovie più grande del mondo: un concentrato straordinario e imprevedibile di biodiversità. Duecento anni fa si estendeva per circa 16.700 chilometri quadrati. Oggi ne rimangono poco più di 6.000, e quelli appartenenti al Bangladesh sono solo 4.110. 
Dalla fine degli anni 70, il Balgladesh si è buttato sull’allevamento dei gamberi, dedicando a questa attività una quota di territorio che è cresciuto con un incremento del 16,6% all’anno
Già nel 1995 l’allevamento dei gamberi assorbiva 138 mila ettari. Ora al posto delle mangrovie ci sono enormi dighe artificiali che sbarrano l'acqua di mare e impediscono che questa fluisca all'interno, ove un tempo vi erano le risaie e pascoli (Fonte: Stefania Ragusa - Bangladesh inferno e delizie - Vallecchi 2008).


I gamberi del Bangladesh al supermercato

Solo su alcune confezioni vi è scritto "made in Bangladesh" poiché la lavorazione e il confezionamento spesso sono fatti altrove, in altri paesi. Comunque la maggior parte dei gamberi che acquistiamo arriva da quelle zone devastate e inquinate. 
Se facciamo attenzione alle confezioni stoccate nei banche frigoriferi, spesso troviamo scatole e/o buste con la dicitura: gamberi indiani, si tratta, almeno nella maggioranza dei casi, della specie Parapenaeopsis stylifera. Oppure si possono trovare quelli vietnamiti (perchè allevati in Vietnam), della specie Penaeus monodon, oppure ancora i cosidetti "gamberi selvaggi" dell'Oceano Indiano. In questo caso le confezioni contengono un misto di Metapeneaus monoceros, M. dobsoni e M. affinis. A volte si trova pure M. ensis e M. brevicornis. Frequentemente troviamo pure i gamberi argentini Pleoticus muelleri, che sono pescati e non allevati, almeno secondo le fonti di cui disponiamo al momento, oppure del genere Hymenopenaeus, più precisamente H. muelleri.


Il Sunderbans (Fonte: GenovaPress)

Il Sunderbans, con i suoi oltre quattromila chilometri quadrati di estensione, è la foresta di mangrovie più grande del mondo: un concentrato straordinario e imprevedibile di biodiversità. Due volte al giorno essa viene completamente ricoperta dalle maree. I sundari tree, che sono le piante più comuni e anche quelle che danno il nome a quest'area, crescono nell'acqua e circondano la moltitudine di isole fluviali che il Gange e il Brahmaputra hanno formato nel tempo trasportando i detriti fino al loro immenso delta. Questi alberi anfibi, che affondano le radici nel letto del fiume e si allungano verso il cielo (raggiungendo anche i venticinque metri di altezza) si addentrano lungo i canali, cedendo poi il passo agli arbusti intricati della foresta pluviale di pianura. 
L'Unesco ha dichiarato questa foresta patrimonio dell'umanità. 
Quando è arrivato Sidr essa ha dimostrato anche di essere un fattore di protezione imprescindibile per il Bangladesh. Il ciclone l'ha letteralmente fatta a pezzi (più di un quarto degli alberi sono stati spezzati o divelti) ma, se non l'avesse incontrata, il bilancio sarebbe stato ben più grave. La vegetazione, infatti, ha protetto l'entroterra e attutito la forza del vento. Se la situazione fosse stata quella di quarant'anni fa, quando le mangrovie lambivano le città di Khulna e Bagerhat e ricoprivano l'intera zona di Chokoria, i danni sarebbero stati ancora minori. 
Oggi il governo bangladese invita la comunità internazionale ad aiutarlo a soccorrere e proteggere il Sunderbans. Il World Heritage Center ha avanzato, al riguardo, una formale richiesta di fondi. A prima vista potrebbe apparire una mossa comprensibile e legittima. Ma, a guardar bene, non lo è affatto. Lo stesso governo, infatti, in contemporanea incentiva e sostiene l'allevamento intensivo del gambero, cioè l'industria che rappresenta la grande minaccia per la foresta e che è stata la prima causa della sua progressiva riduzione. Il governo, in particolare, sta dando il massimo appoggio ai proprietari degli allevamenti che dichiarano di essere stati danneggiati da Sidr. In altre parole, Dhaka chiede soldi per il Sunderbans mentre si sta attivando per continuare a distruggerlo. 


Dove una volta cresceva il riso

Burigaolini si trova quasi dentro la foresta, al confine con l'India. Burigaolini, in bengali, vuol dire «vecchia venditrice di latte». Un nome come questo non viene dato a caso. Nel passato, in questa località, pascolavano tanti bovini. 
Cresceva anche il riso. La sua paglia era il principale foraggio per le mandrie. Il limo che restava sul terreno dopo le piene rendeva i campi fertilissimi. 
Adesso, per chilometri e chilometri, si vedono solo ghers, le vasche dei gamberi. Sidr le ha strapazzate appena. 
Sono stagni grigi dove l'acqua salata viene incanalata e trattenuta. Non c'è traccia di mucche. Camminiamo sotto un sole così caldo da sembrare fuori stagione, abbagliati dalla luce che si riflette sulla superficie liquida. E' venerdì, è festa e attorno alle vasche si affanna poca gente. Un anziano scheletrico vestito col suo lungi (il pareo portato dagli uomini bangladesi) ci fissa, fermo sul sentiero con aria interlocutoria. Non si vedono molti bianchi, schadachambra, da queste parti. Assalam Aleikum, dico. Aleikum Salam, risponde, e comincia a camminare al mio fianco. Sembra avere molta voglia di chiacchierare. Non di Sidr. Ma della sua giovinezza. «Non avevo soldi, nessuno ne aveva qui. Ma il necessario per vivere non mi è mai mancato», comincia. «Oggi ho qualche taka ma manca tutto il resto». Colpa dei gamberi: «Stanno meglio di noi: 
hanno acqua e cibo in abbondanza. E le medicine, se si ammalano». «L'acquicoltura, in realtà, veniva praticata anche prima ma non nella forma fagocitante tipica della monocoltura», spiega Luigi Paggi, un missionario saveriano. "Si allevavano i gamberi ma anche altri tipi di crostacei e pesci. Si coltivava il riso, si coltivavano le verdure. Le donne, in particolare, allevavano animali da cortile. Anche chi non possedeva un campo poteva coltivare le terre libere che appartenevano al governo, le khas, e in certi periodi dell'anno tutti avevano il diritto di prendere ciò che cadeva dagli alberi. Si trattava di un tipo di solidarietà diffusa e condivisa. In inverno venivano chiusi i canali che entravano nella terraferma. Con le piogge, verso maggio o giugno, si tornava a liberarli. Il terreno era protetto dal sale per quasi tutto il tempo. Nessuno era ricco, ma nessuno moriva di fame". 
A lavorare e ad abitare queste terre erano quelli che ci erano nati. Adesso, invece, vengono da fuori gli operai che innalzano gli argini per trattenere l'acqua salata e i guardiani che impediscono l'accesso alle khas. "Il sale si è infilato dappertutto. Per noi è difficile trovare anche l'acqua per bere", aggiunge il vecchio. Un vero paradosso, in un paese sospeso sui fiumi.


30 mila tonnellate all'anno di gamberi

Forse non bisogna dare troppo credito agli anziani quando si mettono a rimpiangere il passato, mi dico. Ma ogni dettaglio, nella desolazione che ci circonda, rende le parole che ho ascoltato tremendamente plausibili. All'altezza di un sundari senza più foglie, spettrale e solitario, c'è una costruzione in muratura, intonacata di bianco e circondata da una palizzata. Certamente molto più robusta dei rifugi anticiclone di cui si è tanto parlato in questi giorni. E' la casa del landlord, signore delle terre e, probabilmente, dei ghers. Anche lui, come tutti i proprietari, abita in città. 
Viene periodicamente, oppure manda i suoi emissari, per riscuotere gli affitti. In teoria è anche lui una vittima di Sidr. 
La cosiddetta Shrimp Region comprende i distretti di Satkhira (dove si trova Burigaolini), Khulna, Bagerath e la parte meridionale di quello di Jessore. 
Circa 190mila ettari di mangrovie e terre fertili, più o meno nel tempo di una generazione, sono stati convertiti in bacini di acquicoltura. In totale, il "raccolto" annuo sfiora le 30mila tonnellate, esportate per l'ottanta per cento in Occidente e per il venti in Giappone. I bangladesi non mangiano i bagda che allevano. Possono permettersi, al massimo, i golda, i gamberi di fiume. 
La coltivazione intensiva è cominciata all'inizio degli anni '80, con la sponsorizzazione di alcune agenzie di sviluppo (come Usaid) e istituzioni finanziarie (come la Banca mondiale e la Banca di sviluppo asiatica)
Gli speculatori si mossero in massa per accaparrarsi le terre più adatte all'allestimento di shrimp farm. Dove queste non c'erano, si industriarono a "crearle": facendo scempio della foresta ed espropriando con qualsiasi mezzo i terreni agricoli. Con qualsiasi mezzo non è un modo di dire. 
Nel 1998, l'Alta Corte del distretto di Satkhira aveva emanato una disposizione con cui si impediva di affittare determinati terreni dello Stato agli imprenditori del gambero. Era una misura volta a proteggere un gruppo di 1200 contadini-pescatori che stavano rischiando di perdere le loro case. A distanza di pochi mesi, l'amministratore del distretto, messo sotto pressione da persone potenti e facoltose, decise di ignorare l'Alta Corte e stabilì che si poteva procedere all'affitto. I contadini furono portati via con la forza. Scoppiarono dei disordini e la polizia privata aprì il fuoco, ferendo 250 persone e uccidendone quattro. Tra queste c'era una donna molto coraggiosa, Zaheda Begum, che guidava un'associazione di senza terra, Kisani Sabha. L'ong inglese Environmental justice foundation riferisce che dal 1980 al 2005 sono stati uccisi più di 150 bangladesi che si erano opposti agli allevamenti. Questa cifra, però, è probabilmente approssimata per difetto. Perché non tiene conto delle centinaia di morti ascrivibili solo indirettamente al gambero. Persone che sono state messe in prigione per avere opposto resistenza alla speculazione e dimenticate lì, o che si sono ammalate irrimediabilmente per le conseguenze di una vita passata a mollo nell'acqua paludosa.


I danni dell'acquicoltura

Ashraf-Ul-Alam Tutu, coordinatore dell'organizzazione Coastal Development Partnership di Khulna è uno dei pochi, in Bangladesh, ad aver fatto ricerche sistematiche sulle conseguenze dell'industria del gambero. «Questo modo di fare acquicoltura ha fatto molti danni», dice. «Richiede meno manodopera rispetto all'agricoltura tradizionale e, quasi sempre, utilizza lavoratori forestieri. Sono stati creati nuovi posti di lavoro, come sottolineano i sostenitori delle shrimp farm, ma molti di più ne sono stati eliminati. Gli abitanti dei villaggi hanno visto sfumare il loro diritto a usufruire delle risorse ambientali pubbliche. Oggi devono acquistare pesce, riso, verdura. Non ci sono più pascoli, quindi non ci sono più animali e non c'è più sterco. Per riscaldarsi o cucinare bisogna prendere la legna nella foresta. Questo vuol dire: spese aggiuntive e un'ulteriore minaccia per il Sunderbans. Nella foresta la vegetazione sta morendo, prosciugata dal sale, e i pesci d'acqua dolce sono praticamente spariti. Gli uccelli fanno fatica a trovare le bacche, i frutti e gli insetti di cui si nutrivano. Le rane e le lontre sono state uccise perché mangiavano i gamberi e le loro larve. Come ha messo in evidenza anche Sidr, la distruzione delle mangrovie ha reso la terra sempre più vulnerabile agli attacchi della natura. La terra, le strade e anche le capanne di fango, seccate dal sale ed esposte all'azione dei fiumi, si sgretolano, si sciolgono, si lasciano portare via». 
L'allevamento del gambero sta danneggiando tutti ma, in particolar modo, le donne. Secondo Nijera Kori, una ong locale impegnata nella difesa dei contadini senza terra, l'aumento della violenza contro le donne è una delle tante conseguenze 
nefaste della politica agricola che ha trasformato il sud del Paese in un gigantesco allevamento di gamberi. Dalle altre regioni arrivano sciami di lavoratori stagionali, senza nessun legame col territorio, senza mogli, senza un tetto. I responsabili della maggior parte delle violenze sarebbero tra loro. Prima dei gamberi le donne potevano guadagnare qualcosa e contribuire all'economia familiare allevando animali domestici e coltivando ortaggi. Non si trattava di grosse somme, ma comunque quei soldi erano sufficienti a dar loro una certa autonomia e, quindi, a farle rispettare di più. Adesso questa possibilità è tramontata e, se anche volessero riciclarsi, l'acquicoltura non ha bisogno di braccia femminili. Preferisce quelle forti e disincantate di operai forestieri, che emigrano al sud solo per lavorare nelle vasche e non hanno legami con la terra che li ospita. Alle donne non è rimasto che unirsi ai bambini. Insieme passano ore e ore dentro l'acqua stagnante, senza guanti o gambali di protezione, cercando larve da rivendere agli allevatori. Il guadagno è pressoché irrilevante. In compenso, senza rendersene conto, contribuiscono ad aggravare l'impatto ambientale. Per ogni larva di gambero raccolta, infatti, centinaia di altre, appartenenti a creature dell'acqua meno appetibili dei gamberi ma necessarie alla biodiversità, vengono abbandonate sulla riva.


Chi si arricchisce con i bagda?

Il Bangladesh è il quinto esportatore mondiale di gamberetti. C'è però chi non si accontenta e punta a scalare la classifica. La già citata Usaid, per esempio, ha avviato nel 2003, con l'avallo del governo e la collaborazione di organismi locali, un piano di supporto e assistenza per debellare, a forza di antibiotici, una serie di malattie dei gamberi che limitano la produzione. Secondo le previsioni degli «sviluppisti» americani, dopo cinque anni di cure, le entrate dovrebbero salire dagli attuali 292 milioni di euro a 1,25 miliardi. Può sembrare allettante: più soldi, più posti di lavoro, più ricchezza, più benessere. 
Ma la questione non può essere considerata solo dal punto di vista del fatturato. Tanto più che, tutti questi milioni, non vanno a sollevare i poveri dalla miseria, ma si concentrano nelle tasche di pochi che, probabilmente, non hanno mai neanche dovuto avvicinarsi a un ghers. 
Pochi hanno avuto fino ad ora il coraggio di indagare seriamente su chi si sta arricchendo con i bagda. Qualche tempo fa, dalle parti di Khulna, ci aveva provato un bravo giornalista: Manik Chandra Saha, capo redattore del Daily New Age e corrispondente della Bbc. E' stato ucciso da un gruppo di sicari nel gennaio del 2004, mentre tornava a casa in rickshaw. Aveva cominciato a ricevere minacce di morte nel 2000, dopo la pubblicazione di un piccolo volume su, guarda caso, la coltivazione dei gamberetti.


Fonte: http://www.biologiamarina.eu/Allevamento_Gamberi.html

venerdì 13 marzo 2015

L'associazione a delinquere banca-stato (VI° parte): le imprese finanziarie e bancarie? Sempre in attivo!


A fronte di bilanci aziendali sempre più striminziti, ai fallimenti crescenti e alla conseguente diffusa disoccupazione, le uniche imprese a chiudere i bilanci sempre in attivo sono quelle finanziarie e bancarie.
Non pare azzardato ipotizzare che la lotta di classe, coltivata e sospinta tra le varie categorie produttive, che in ogni caso restano, anche se con problemi distinti, incatenate ad anelli diversi della medesima catena del bisogno, e allo stesso destino, persegua fini meramente strumentali: occultare, o quanto meno distrarre l'attenzione dalla vera guerra in atto: quella tra il mercato e l'intero sistema produttivo da una parte e l'apparato monetario, bancario e finanziario, dall'altra
Il sistema parassitario, finanziario, bancario e monetario, fagocita quello produttivo.

Chi amministra il mezzo, si sta impossessando del fine a favore del quale, per rendere più agevoli le operazioni del mercato, il mezzo stesso era stato predisposto.
La struttura monetaria attraverso il mezzo, la moneta, creata e finalizzata per facilitare lo sviluppo del mercato produttivo, si sta impossessando dell'apparato produttivo.
Qualunque pretesto e qualsiasi situazione vengono utilizzati dalle così dette "autorità monetarie" per pianificare la rarità monetaria (deflazione), vero e proprio flagello dell'intera umanità.
Le manovre più utilizzate sono:
a) Aumento indiscriminato delle tasse e tariffe, che causa l'incremento dei costi per unità di prodotto, che provoca deflazione. Artatamente questo fenomeno (aumento dei prezzi in conseguenza dell'aumento dei costi) viene sbandierato e definito "aumento dell'inflazione", mentre è vero il contrario, per poter psicologicamente giustificare il continuo aumento delle tasse e tariffe, e ridurre ulteriormente la circolazione monetaria.
b) Bilancio primario dello Stato (al netto degli interessi sul debito pubblico) fortemente attivo negli ultimi anni. Le ingenti somme eccedenti dal bilancio primario dello Stato, prelevate dal mercato mediante imposte e tasse, corrispondenti al pagamento parziale degli interessi passivi del debito pubblico, non ritornano in circolo sul mercato stesso sotto qualunque voce di spesa, ma finiscono nelle casse del sistema parassitario: bancario, monetario e finanziario. Esattamente questa è la ricchezza prodotta da tutti che scompare dal mercato. Pertanto lo Stato, e per esso il Governo, è finito per diventare esattore per conto del sistema bancario, monetario e finanziario, 
c) Caduta di competitività sui mercati esteri causata dall'eccessiva sopravvalutazione della moneta. Si favorisce occupazione e lavoro dei mercati esteri a danno di quelli nazionali.
d) Tasso Ufficiale di Sconto spropositatamente elevato (specie se paragonato a quello dei paesi produttori, nostri concorrenti, due o tre volte più basso del nostro, attualmente quello italiano = 6,75, in Giappone = 0,50 )[i dati si riferiscono al tempo in cui il libro fu scritto],
e) Residui passivi. Queste ingenti somme, già stanziate a bilancio nelle varie Amministrazioni Pubbliche, pronte per essere spese, ma non utilizzate, ammontano a oltre 600 mila miliardi, (relazione Rita Muccini 10-9 - 94) in gran parte depositate e infruttifere nelle varie tesorerie della Banca d'Italia.
Giancarlo Liuti in risposta a Franco Ferretti di Ancona, su "il Resto del Carlino" del 22 giugno '97 afferma: Scandalosi "residui passivi"- "Ogni tanto ne parlano qualche ministro e qualche leader di partito, ma di sfuggita, con un'aria tra l'impotenza e la rassegnazione. Eppure i cosiddetti "residui passivi" sono di gran lunga il più clamoroso scandalo nazionale, ben peggiore di qualsiasi "Tangentopoli" e oltretutto non aggredibile da alcun magistrato di "mani pulite".
La gravità di questa situazione è sì determinata dai 60 mila miliardi circa di interessi passivi annui risparmiabili dalle Pubbliche Amministrazioni e quindi dall'intero mercato, ma ancor più dalla stasi lavorativa di imprese e aziende che si determina, con le drammatiche conseguenze in termini di fallimenti, dissesti e disoccupazione.
Per continuare e incrementare la stagnazione della circolazione monetaria delle ingenti somme, che confluiscono poi nei residui passivi, viene mantenuto in gran parte il blocco sui Lavori Pubblici, già progettati e finanziati, su tutto il territorio nazionale.
Anche questa enorme massa monetaria, incamerata dal sistema bancario e sottratta al mercato produttivo, grazie al rimosso divieto di qualche anno fa (legge bancaria 1994) che impediva tassativamente e giustamente, agli Istituti di Credito, di possedere cointeressenze nelle aziende produttive (il motivo era ed è sin troppo evidente), concorre alla fine a far fagocitare le imprese, sia pubbliche che private, preventivamente messe in difficoltà proprio dalla programmata deflazione, dal sistema finanziario e monetario.
In quali condizioni di supporto finanziano potrà trovarsi una azienda sana, nei confronti di una sua concorrente malferma nella quale, proprio perché tale, qualche Banca si è impossessata di quote del capitale sociale?"
Va evidenziato, infine, che bloccare grandi quantità di denaro pubblico nei residui passivi, distogliendolo dalla circolazione, ha comportato e comporta mettere lo Stato nella necessità di indebitare i cittadini con nuove richieste di emissione monetaria dalla Banca Centrale, per sopperire alla mancanza di denaro così creata. Questa operazione può dunque essere intenzionale.

Fonte: Euroschiavi, Marco Dalla Luna e Antonio Miclavez

giovedì 5 marzo 2015

L'associazione a delinquere banca-stato (V° parte): la Banca d'Italia e i suoi segreti

Le funzioni della Banca d'Italia, prima dell'Euro, erano:
a) emettere il denaro ufficiale;
b) fungere da lender of last resort (prestatore di ultima istanza) per le banche in difficoltà finanziaria;
e) fissare il tasso ufficiale di sconto;
d) fissare i tassi di cambio internazionale;
e) vigilare sulle banche di credito.


La Banca d'Italia è una banca a capitale privato e gestita in modo privato e nell'interesse dei suoi soci o partecipanti privati e senza alcun controllo democratico del Parlamento o del Governo


Dalla fondazione a oggi

La Banca d'Italia nasce con la Legge n. 443 del 10.08.1893 dalla fusione di tre preesistenti banche e dalla liquidazione della Banca di Roma, dovuta a un colossale scandalo. Le varie banche precedentemente autorizzate a emettere la moneta legale nel Regno d'Italia, per ovvi fini, superavano le quote di emissione assegnate. 
La Banca d'Italia ebbe la forma di una società anonima, ossia di una società di capitali analoga alla società per azioni. La nomina dei suoi organi amministrativi e di controllo spettava e spetta all'assemblea dei soci o partecipanti, non al Governo né al Parlamento, come si spiegherà in seguito.
Il Regio Decreto 28.04.1910 n. 204 stabilisce, al suo articolo 25, che la Banca d'Italia farà al Ministero del Tesoro anticipazioni, ossia sconti ("sconti" inteso nel senso finanziario di anticipazioni su crediti, non nel senso comune di riduzione del prezzo) sui titoli del debito pubblico al tasso dell'1,5%.
Nel 1926 il regime fascista riservò alla Banca d'Italia in via esclusiva la funzione di emettere la valuta di Stato.
Con una serie di norme, tra il 1938 e il 1994, si arrivò ad attribuire alla Banca d'Italia la denominazione di "Istituto di diritto pubblico", sebbene in realtà restasse privata a tutti gli effetti; la totale indipendenza dal controllo pubblico; il potere di fissare sia il tasso di sconto (l'interesse che lo Stato e le banche commerciali pagano per ottenere i soldi dalla Banca d'Italia) che la ragione (proporzione) dello sconto (ossia, quanto percentualmente la Banca anticipa allo Stato sui titoli del debito pubblico che questo le presenta da scontare) (art. 25 dello Statuto della Banca d'Italia). In base al suo Statuto, le nomine degli organi sia amministrativi che di controllo della Banca d'Italia, compresa quella del Consiglio Superiore dagli azionisti della Banca d'Italia stessa, i quali a loro volta sono banche private, assicurazioni private, e l'Inps. L'approvazione di talune di queste nomine da parte del Governo è un mero riscontro di legittimità.
Precisamente, l'art. 5 dello Statuto detta:
"l poteri dell'Istituto risiedono:
a) nell'assemblea generale dei partecipanti;
b) nel Consiglio superiore e nel Comitato del Consiglio superiore;
e) nel direttorio, costituito dal governatore, dal direttore generale e da due vice direttori generali".
L'art. 6 stabilisce: "L'assemblea generale convocata dal Consiglio superiore non meno di 15 giorni innanzi a quello fissato per l'adunanza, si riunisce in Roma non più tardi del 31 maggio di ciascun anno. È presieduta dal governatore. (...)"
E l'art. 7: "L'ordine del giorno dell'assemblea ordinaria viene stabilito dal Consiglio superiore e deve comprendere la approvazione del bilancio e la nomina dei sindaci e dei due supplenti. Deve pure comprendere tutte le proposte presentate al Consiglio superiore entro il mese di marzo (...)"
A mente dell'art. 17, "Il Consiglio superiore si compone:
- del governatore;
- di 13 consiglieri nominati nelle assemblee generali dei partecipanti presso le sedi della Banca in ragione di uno per ciascuna sede.
Reca l'art. 18: "Il Consiglio superiore tiene le sue adunanze in Roma sotto la presidenza del governatore. Esso nomina nella prima sua tornata di ciascun anno quattro dei propri componenti per costituire assieme al governatore il Comitato, che è parimenti presieduto dal governatore e al quale interviene pure il direttore generale con voto consultivo.
Le adunanze del Consiglio superiore sono ordinarie e straordinarie. (...) Le deliberazioni si prendono a maggioranza assoluta. Il governatore, o chi ne fa le veci, vota soltanto nel caso di parità di voti (...)
Il Comitato si riunisce di regola una volta al mese su invito del governatore (...)"
L'Art. 19 disciplina il Consiglio superiore: "Il Consiglio superiore nomina e revoca il governatore, il direttore generale e i due vice direttori generali (...).
Le nomine e le revoche debbono essere approvate con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto col Ministro per il tesoro, sentito il Consiglio dei Ministri".
Statuisce l'art. 20 che al Consiglio superiore "spetta l'amministrazione generale della Banca".
Tanto per rimarcare la radicale anomalia del sistema bancario italiano, facciamo presente che lo stesso assetto proprietario della Banca d'Italia è illegittimo e incompatibile col suo statuto
Lo statuto del 1948, controfirmato da Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi (quel cattolico che voleva parlare solo di politica, mai di economia), afferma che la Banca d'Italia è un Ente pubblico, e l'art. 3 sancisce che la maggioranza debba essere pubblica e i soci che compongono la maggioranza debbono essere a loro volta a maggioranza pubblica. Letteralmente, stabilisce: "Le quote di partecipazione possono essere cedute, previo consenso del Consiglio superiore, solamente da uno a un altro ente compreso nelle categorie indicate nel comma precedente.
In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della banca da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici". 
La Banca d'Italia si trova oggi pesantemente fuori dei requisiti di legge, poiché risulta quasi completamente posseduta da gruppi bancari e assicurativi totalmente privati: Gruppo Intesa (27,2%), Gruppo San Paolo (17,23%), Gruppo Capitalia (11,15%), Gruppo Unicredito (10,97%), Assicurazioni Generali (6,33%), INPS (5,0%), Banca Carige (3,96%), Bnl (2,83%), Monte dei Paschi di Siena (2,50%), Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%), RAS (1,33%), Gruppo La Fondiaria (2,0%) e Gruppo Premafin (2,0%).
I soci azionisti della Banca d'Italia sono, all'85% circa, banche private; al 10%, assicurazioni private. Queste percentuali sono state ricavate da un'indagine di "Famiglia Cristiana" del 4 Gennaio 2004 e de "Il Sole 24 Ore" con un'operazione di "spulcio" tra la contabilità delle banche e assicurazioni azioniste della Banca d'Italia, che sono, fortunatamente per noi, ancora tenute a dire dove investono i nostri soldi.
Ciò nonostante, continua a svolgere la funzione di pubblico servizio nella sorveglianza e la vigilanza sulle banche italiane, comprese le sue "partecipanti", con chiaro conflitto di interessi.
Ma vi è di peggio: nel corso degli anni, gli azionisti della Banca d'Italia hanno indotto i vari governi a cedere sempre maggiori poteri e maggiore indipendenza, a spese dello Stato e della collettività. In base alla nuova legge bancaria del 1994, essi operano ora nella più assoluta discrezionalità e indipendenza.
L'art. 54 dello statuto stabilisce che ai soci di Banca d'Italia debba essere ripartito l'utile nella misura massima del 6-10%. Invece, a fronte di tutta la moneta emessa, la Banca d'Italia riceve per pari importo valori e titoli mobiliari che iscrive all'attivo del proprio bilancio, mentre iscrive al passivo il controvalore corrispondente alla moneta emessa, come se questa moneta costituisse un suo debito, come se fosse da rimborsare o convertire; mentre assolutamente non lo è. Quindi la Banca d'Italia sottrae questo suo enorme reddito sia all'imposizione fiscale che alla sua naturale destinazione in favore dello Stato, e lo canalizza altrove.
Questa è la causa ultima del debito pubblico e della ricchezza smisurata dei banchieri privati.

"Con l'avvento della progettata moneta unica in Europa, analoghi e più incisivi poteri stanno per essere conferiti alla Banca Centrale Europea se non saranno riviste le clausole attuative del trattato di Maastricht.
E'ultima e più importante funzione di controllo in campo monetario, che era rimasta al Parlamento, quella di stabilire il TUS, è stata conferita anch'essa alla Banca d'Italia dall'ultimo governo Andtreotti. Il decreto legge, emanato dall'allora Ministro del Tesoro Guido Carli, ex Governatore di Banca d'Italia, è stato convertito in legge, alla stregua di una leggina estiva, quando i parlamentari avevano già le valige in mano per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Lo Stato e il Popolo Italiano hanno da allora perso totalmente la sovranità sulla propria moneta.
Nasce cosi, quasi per volontà divina, una sorta di nuova liturgia, riservata a pochi, chiamati alla carica di autorità monetarie.
Media compiacenti, e altri accondiscendenti, solo per emulare quelli maggiormente gratificati, si affannano ad accreditare l'immagine e la sacralità di queste nuove e auto-proclamate autorità.
L'edificazione di questo alone di rispettabilità, quasi ecclesiale, risulta pressoché indispensabile, giacché queste "autorità monetarie" non dispongono di alcuna legittimità costituzionale o popolare necessaria per esercitare una funzione così importante quale risulta il governamento bancario e monetario della Nazione Italia, disgiunto e separato dal Governo e dallo Stato. L'assoluta mancanza di legittimità da parte delle cosiddette "autorità monetarie" è determinata dall'autoproclamazione che si celebra all'interno dell'assemblea dei soci di Banca d'Italia, sottoposti, a loro volta, all'azione di controllo e vigilanza di Banca d'Italia stessa".


Il signoraggio

La natura privatistica della Banca d'Italia si manifesta anche nel fatto che i "partecipanti" (v. artt. 54 e 46 dello Statuto della Banca d'Italia) hanno diritto non solo al rendiconto annuale di gestione, ma pure agli utili. 
Questi utili, come abbiamo anticipato, consistono non solo e non tanto negli interessi attivi che la Banca d'Italia lucra prestando denaro allo Stato e alle banche commerciali, quanto nel signoraggio, ossia nel fatto che il denaro che essa emette e presta non le costa alcunché.
All'atto pratico, politico ed economico, i "partecipanti" o proprietari della Banca d'Italia sono imprenditori capitalisti privati che, esercitando, in base a un monopolio costituito per legge, poteri sovrani attraverso la Banca medesima, influenzano fortemente l'economia, la politica, l'attività di governo (immaginiamo soltanto le conseguenze che, sul governo, hanno i rialzi del tasso di sconto: possono far saltare le previsioni finanziarie e mettere in crisi il governo stesso).
Inoltre, a questo loro strumento, ossia alla Banca d'Italia, è riservato per legge il compito di vigilanza sugli istituti di credito - il che vuol dire che i banchieri giudicano se stessi, persino quando si tratta di contestazioni di fatti illeciti commessi da banche verso soggetti diversi dalle banche come ad esempio i risparmiatori defraudati. Per giunta, queste procedure disciplinari rimangono segrete, molto più segrete delle indagini di un procedimento penale. Ad esempio, se denunci per iscritto alla Banca d'Italia un illecito commesso da una banca nei tuoi confronti, la Banca d'Italia ti risponde che esaminerà il caso, ma che tutto avverrà in via riservata e che non hai diritto a essere informato - ossia, che la cosa verrà trattata nel segreto degli affari interni della casta dei banchieri.


Il potere della Banca d'Italia

Da quanto detto sopra apparirà chiaro che la Banca d'Italia è, nella costituzione reale di questo Paese, ossia nel vero sistema di potere, il principale organo del dominio del capitale bancario sullo Stato e sulle pubbliche istituzioni - e, attraverso di questi, sui lavoratori autonomi e dipendenti, sui risparmiatori, sugli enti pubblici.
Un punto di massimo interesse nell'ordinamento della Banca d'Italia è il principio di assoluta irresponsabilità del suo Governatore
Il Governatore della Banca d'Italia, di fatto e di diritto, è una sorta di gestore, di amministratore delegato di una s.p.a. privata. Ma, a differenza di tutti gli altri amministratori, non è responsabile delle proprie azioni e dei propri abusi. Di fatto, non viene nemmeno criticato per quelli che commette. È un intoccabile per lo Stato.
Così è avvenuto che nessuno ha chiamato il Governatore in carica nel 1992 a render conto del fatto che, nell'autunno di quell'anno, per sua propria decisione bruciò in due settimane inutilmente ben settantamila miliardi di Lire per ritardare di due settimane il crollo della Lira, quando si sapeva con certezza che la Lira stava per perdere ineluttabilmente circa il 25-30% sulle principali monete europee a causa del differenziale di svalutazione accumulato tra queste e la Lira italiana, nel corso di diversi anni, per i quali i rapporti di cambio tra le monete comunitarie erano stati bloccati, anche se le diverse monete si svalutavano a tassi molto diversi tra loro, sicché la Lira aveva perso il 30% del potere d'acquisto rispetto al Marco tedesco. Eppure l'errore o abuso era clamoroso, e il danno per lo Stato è stato enorme e noi ne paghiamo ogni giorno le conseguenze di tasca nostra, mentre quei settantamila miliardi, denari dei contribuenti italiani, si trasferirono bellamente nelle tasche degli speculatori internazionali. Non solo nessuno lo chiamò a rispondere del suo operato, o anche solo a giustificarlo, fosse anche in sede politica, come si sarebbe fatto con un ministro che avesse cagionato un simile disastro nazionale: lo fecero superministro dell'economia, capo del Governo e infine capo dello Stato. Però forse questa carriera fino ai vertici degli onori pubblici non è stata un avanzamento, ma un ridimensionamento o semipensionamento: da capo del back office a capo del front office del sistema di potere che governa lo Stato.
Non è però un Governatore della Banca d'Italia a detenere il primato postbellico di calamitosità per le sorti della nazione italiana. Il primo governo di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, infatti, comperò per 10.000 miliardi di allora, pari a 100.000 di oggi, denaro dei contribuenti, gli impianti idroelettrici della S.I.P. (Società idroelettrica piemontese spa, che con questi soldi pubblici si convertì alla telefonia finanziando lo sviluppo della tecnologia a ciò necessaria, mentre lo Stato, con quell'inutile esborso, si era privato del denaro per finanziare lo sviluppo tecnologico del settore pubblico), quando le concessioni demaniali per svolgere la sua attività e su cui si basava il valore delle azioni stavano per scadere, e bastava aspettare la loro scadenza per rilevare gli impianti dalla liquidazione della società. Ma la funzione dello Stato è appunto quella di travasare costantemente la ricchezza dalla popolazione generale ai proprietari dello Stato stesso.
Quella volta, il travaso fu coperto da una mistificazione sociale: Moro si disse, enfaticamente quanto pudicamente, che lo Stato nazionalizzava la S.I.P. per portare la luce a tutti, anche a quelle remote utenze rurali o montane, che un gestore privato del servizio elettrico, guidato dalla logica imprenditoriale, non avrebbe mai avuto interesse a collegare. Quindi era un'operazione in favore del popolo, democratica.
Nessuna formazione politica si levò per dire il contrario, perché nessun leader politico aveva interesse a denudare il meccanismo fondamentale dello Stato.
In effetti lo Stato, attraverso l'Enel, portò la luce a tutti, ma a un costo enorme per la società e con un profitto altrettanto enorme per i capitalisti finanziari, attraverso l'indebitamento pubblico contratto per quell'inutile spesa di acquisto delle azioni S.I.P. A questo costo si è aggiunto, in seguito, il fatto che l'energia elettrica in Italia è finita per costare all'utente più che in ogni altro Paese europeo. Il che dimostra concretamente che la giustificazione etico-politica data (magari in buona fede) all'operazione, mascherava un'intenzione e un interesse esattamente opposti a quelli da lui dichiarati. E mette in guardia contro le molte buone cause etiche e sociali che vengono adoperate per mascherare analoghi interessi e speculazioni, dagli aiuti ai terremotati agli aiuti al Terzo Mondo alle missioni Arcobaleno. Del resto, è del tutto irrazionale pensare che operatori politici, i quali sono guidati e condizionati dalla logica del profitto (loro proprio e dei loro sponsors finanziari), possano adoperare le buone cause a scopi diversi dal profitto stesso.

Fonte: Euroschiavi, Marco Dalla Luna e Antonio Miclavez