martedì 27 gennaio 2015

La new economy (II° parte): la borsa e il mimetismo del gregge


La lievitazione spropositata dei valori azionari crea una spirale senza via d'uscita, fino al crollo delle borse. Si può dire che nelle fasi espansive i mercati finanziari rivelano una dinamica del tutto autoreferenziale o riflessiva, nel senso che il valore dei titoli non ha più nulla a che fare con il valore economico soggiacente a questi stessi titoli. 
Si investe secondo la logica dell’imitazione di ciò che fanno gli altri e non secondo ciò in cui si crede o di cui si conosce il valore reale. In altre parole prevale la razionalità mimetica del gregge (faccio così perché tutti fanno cosi), a maggior ragione quando i mass media fanno di tutto per amplificare il rumore attorno ai titoli borsistici, alle megafusioni, al lancio delle nuove imprese dell’e-economy (le startup).
A ben guardare, il processo che porta milioni di piccoli e grandi investitori a fissare l’attenzione sui titoli azionari è identico al processo che nell’economia di mercato porta all’istituzione del denaro. In entrambi i casi si parte da una situazione in cui i singoli soggetti economici, ossia i detentori di qualche valore d’uso da scambiare contro altri beni utili, cercano di ottenere dalla vendita di ciò che posseggono un bene che sia il più rappresentativo possibile della ricchezza. 
In una situazione di cronica incertezza rispetto al futuro, la ricchezza che ognuno cerca di realizzare oggi è quella che domani gli permetterà di acquistare un qualsiasi altro bene. Si tratta quindi di una ricchezza che deve avere la peculiarità di essere unanimemente riconosciuta come tale. Infatti, la mia nozione di ricchezza (per esempio la casa, l’automobile, un quantitativo di oro) non è sufficiente per far fronte all’incertezza economica futura, perché se un domani avessi urgente bisogno di pagare il medico, questo mio bene particolare (casa, auto, oro) potrebbe non avere più lo stesso valore di mercato. 

Cercare la ricchezza, è cercare ciò che è desiderato da tutti, è cercare il desiderabile assoluto.
Ciò che fa di un bene la ricchezza universale si chiama liquidità, nel senso che la sua utilità proviene essenzialmente dal suo essere riconosciuta da tutti i membri di una determinata società. 
Non è la sostanza di cui è fatta la ricchezza che la definisce come tale, bensì il fatto che in un determinato periodo storico quel bene particolare è da tutti considerato un bene universale, un bene liquido perché facilmente convertibile in qualsiasi altro bene. Per far subito un esempio, i BOT statunitensi sono considerati altamente liquidi perché convertibili in denaro non appena se ne ha bisogno. Non è così per tutti gli altri titoli, e per quanto riguarda la moneta il suo grado di liquidità dipende dalla fiducia riposta dai cittadini nel suo essere moneta a corso legale.
In assenza del denaro e, in particolare, in assenza di un concetto di ricchezza che abbia la stessa validità per tutti, ognuno di noi utilizza l’altro come modello da imitare. La ricchezza dell’altro diventa per me “la” ricchezza da ricercare, e questo proprio a causa della incapacità di fare del mio concetto di ricchezza un concetto universale.
In altre parole, ogni soggetto è contrassegnato da un “manco d’essere”, un deficit di informazione rispetto alla società in cui vive, che lo porta ad imitare il comportamento altrui. 
In un’economia di mercato rapporti di imitazione sono comunque rapporti di rivalità, nella misura in cui imitare l’Altro significa desiderare ciò che l’Altro desidera o possiede, così che alla fine tutti concentrano l’attenzione sul medesimo bene. 
È precisamente questo processo conflittuale di imitazione/appropriazione che è all’origine dell’istituzione della moneta nella sua qualità di mediatore degli scambi. Senza la moneta istituzione i rapporti tra soggetti sarebbero rapporti di violenza reciproca.
Se la moneta permette di mediare i rapporti di scambio in virtù del suo essere unanimemente accettata, lo stesso può dirsi per i titoli quotati in Borsa. 
La liquidità dei titoli borsistici nasce dalla necessità di rendere rapidamente scambiabili i titoli nei quali la gente ha investito i propri risparmi. Se i titoli non fossero liquidi, vale a dire negoziabili, la propensione ad investire verrebbe fortemente inibita (in caso di bisogno urgente di liquidità, chi ha risparmi investiti in Borsa e non può vendere i titoli in cui li ha immobilizzati, va incontro a sicuro fallimento). 

«Si tratta di trasformare – scrive Orléan – ciò che non è altro che una scommessa personale su dividendi futuri in una ricchezza immediata hic et nunc. 
A tal fine, bisogna trasformare le valutazioni individuali e soggettive in un prezzo accettato da tutti. Detto altrimenti, la liquidità impone che sia prodotta una valutazione di riferimento che dica a tutti i finanzieri il prezzo al quale il titolo può essere scambiato. 
La struttura sociale che permette l’ottenimento di un tale risultato è il mercato: il mercato finanziario organizza il confronto tra le opinioni personali degli investitori in modo da produrre un giudizio collettivo che abbia lo statuto di una valutazione di riferimento. 
Il corso che emerge in questa maniera ha la natura di un consenso che cristallizza l’accordo della comunità finanziaria. 
Annunciato pubblicamente, ha valore di norma: è il prezzo al quale il mercato accetta di vendere e d’acquistare il titolo considerato, in un determinato momento, ed così che il titolo è reso liquido. 
Il mercato finanziario, per il fatto di istituire l’opinione collettiva come norma di riferimento, produce una valutazione del titolo riconosciuta unanimemente dalla comunità finanziaria».

Tratto dall'articolo "Il denaro che parla" di Christian Marazzi 
(da «Inoltre», a. V, n. 6, inverno 2002, pp. 9-19)

Nessun commento:

Posta un commento