Gli eco-profughi o vittime del clima hanno fatto la loro comparsa sui media (italiani e non) solo in tempi recentissimi e sono la “conseguenza” di un problema serio e sottovalutato.
La prima definizione del termine, che si deve all’allora direttore dell’UN Environment Programma Essan El-Hinnawi, è del 1985.
L’environmental refugee, dice El-Hinnawi, è una “persona che ha dovuto forzatamente abbandonare la propria dimora, in modo permanente o temporaneo, a causa di grandi sconvolgimenti ambientali (naturali e/o indotti dall’uomo) che hanno messo in pericolo la sua esistenza o danneggiato seriamente la sua qualità di vita”.
Questa definizione, sebbene criticata per la sua generalità, è tutt’ora largamente condivisa e rappresenta un punto di partenza ricorrente nei ragionamenti sui profughi ambientali. Lo stesso accordo non si ritrova quando dal piano terminologico si passa a quello pratico, quando si affronta cioè la questione del “trattamento” politico e umanitario da riservare agli eco-profughi.
Tra gli addetti ai lavori ci sono tre orientamenti prevalenti: chi ritiene che agli eco-profughi vada accordato lo stesso status dei rifugiati di guerra e sollecita una modifica della Convenzione di Ginevra in questa direzione; chi li considera un caso a se stante, meritevole di una protezione specifica; chi non riconosce loro una particolare specificità e pensa che essi vadano considerati come “normali” migranti economici. Nessuna di queste posizioni ha la forza per imporsi sulle altre, ma tutte e tre contengono nuclei di verità.
È innegabile che gli eco-profughi necessitino di una protezione, specifica o meno. Ugualmente innegabile è che, in molti casi, essi non siano distinguibili dai migranti spinti da necessità economiche, e a volte anche dai profughi “tradizionali”.
Il numero di eco-profughi, indipendentemente da come li si voglia considerare, negli ultimi 50 anni è cresciuto vertiginosamente: milioni di esseri umani, provenienti soprattutto dai paesi del cosiddetto terzo mondo, che si riversano su un occidente sempre più affaticato e in crisi e a sua volta – anche se in modo meno massiccio – produttore di eco-profughi (Katrina docet).
Dietro questo aumento, prescindendo dai fattori non antropici, ci sono responsabilità globali e in molti casi occidentali (pensiamo al global warming) e altre specifiche dei singoli paesi “esportatori” di eco-profughi. Secondo l’Institute for Environment and Human Security dell’Università delle Nazioni Unite, il numero dei profughi ambientali nel mondo nel 2010 ha superato la soglia dei 50 milioni (nel 1990 erano la metà). Mentre 340 milioni erano le persone esposte al rischio dei cicloni tropicali e circa 520 milioni quelle minacciate dalle inondazioni. Nel 2050 il numero effettivo degli sfollati potrebbe complessivamente raggiungere i 250 milioni. La stima è del professor Norman Myers del Green College dell’Università di Oxford, ed è considerata una delle più accurate.
In realtà le previsioni sul numero potenziale di eco-profughi variano molto e vanno prese con beneficio di inventario.
Come riconosce lo stesso Myers, nessuno oggi può dire con certezza quale sarà l’impatto dei cambiamenti climatici sulla distribuzione della popolazione mondiale.
Negli studi sulle conseguenze del global warming il Bangladesh compare sempre. È infatti uno dei Paesi più a rischio e, in potenza e in atto, tra i massimi produttori di eco-profughi. Myers ha calcolato che da qui al 2050 potrebbe “sfornarne” oltre 26milioni.
Come è noto, il Bangladesh è a rischio innanzitutto per la sua morfologia e il suo clima: per le sue coste che si trovano al di sotto del livello del mare e per quel suo “galleggiare” su un delta immenso e volubile, esposto a cicloni ed alluvioni sempre più ricorrenti e devastanti.
È stato calcolato che da qui al 2050 il 6% del terreno della coastal zone andrà perduto. La coastal zone è un mix di mare e terra, lungo 710 km che include circa 250 isolotti e tratti di foresta di mangrovie (nel Sunderbans) e una lunga e ininterrotta spiaggia di sabbia (a Cox’s Bazar). Su essa insistono 19 distretti e vivono almeno 40 milioni di persone: sono tutti potenziali eco-profughi.
Ma cicloni e alluvioni sono solo una parte del problema. L’innalzamento del livello del mare ha provocato l’aumento della salinità delle acque in tutta la zona costiera e questo ha conseguenze devastanti per l’agricoltura, l’accesso all’acqua potabile, la vita quotidiana delle persone.
Fin qui stiamo parlando delle conseguenze semplici e dirette del global warming. Ma a rendere ulteriormente critica la situazione del Bangladesh ci sono anche fattori specifici: lo ship-breaking praticato in totale deregulation a Chittagong, che sta avvelenando il mare e le persone e contribuendo all’erosione delle coste, il disboscamento, l’urbanizzazione senza regole, l’acquicultura intensiva…
Si tratta in prevalenza di pratiche di sfruttamento delle risorse che stanno distruggendo l’eco-sistema, privando il territorio delle sue naturali difese e compromettendo molti equilibri sociali.
Il 15 novembre del 2007 il ciclone Sidr si è abbattuto sul golfo del Bengala e ha spazzato la coastal zone uccidendo 3500 persone e lasciandone 2 milioni senza casa (creando dunque 2milioni di eco-profughi). In quell’occasione la foresta ha dimostrato di essere un fattore di protezione imprescindibile per il Bangladesh. Gli alberi hanno attutito la forza del vento e protetto l’entroterra.
Dove invece che foresta autoctona c’erano le piantagioni, molte piante invece sono state sradicate e si sono trasformate in inconsapevoli e ulteriori strumenti di morte. Nella Shrimp Region, dove non c’è più foresta e non ci sono nemmeno piantagioni, ma solo vasche di acquicoltura per chilometri e chilometri, Sidr ha avuto campo libero. Se lo stesso ciclone si fosse palesato 40 anni fa, quando le mangrovie lambivano le città di Khulna e Bagerhat e ricoprivano l’intera zona di ùChokoria, i danni sarebbero stati pressocchè irrisori.
La Shrimp Region comprende i distretti di Satkhira, Khulna, Bagerath e la parte meridionale di quello di Jessore. Circa 190mila ettari di mangrovie e terre fertili, più o meno nel tempo di una generazione, sono stati convertiti in bacini di acquicoltura. Il “raccolto” annuo sfiora le 50mila tonnellate, esportate per l’ottanta per cento in Occidente e per il venti in Giappone. I bangladesi non mangiano i bagda (è il nome locale per i gamberi da acqua salata) che allevano.
Possono permettersi, al massimo, i golda, i gamberi di fiume.
La coltivazione intensiva è cominciata all’inizio degli anni ‘80, con la sponsorizzazione di alcune agenzie di sviluppo (come Usaid) e istituzioni finanziarie (come la Banca Mondiale e la Banca di Sviluppo Asiatica). Gli speculatori si mossero in massa per accaparrarsi le terre più adatte all’allestimento di shrimp farm. Dove queste non c’erano, si industriarono a “crearle”: facendo scempio della foresta ed espropriando con qualsiasi mezzo i terreni agricoli.
Le vittime del gambero forse non possono essere considerate in senso stretto vittime del clima, ma dell’ambiente o, meglio ancora, della politica ambientale certamente sì. E, tra esse, chi ha lasciato la propria casa per trasferirsi in occidente o in India o a Dhaka o magari soltanto a pochi chilometri di distanza è sicuramente un eco-profugo, anche se alla decisione di muoversi non è arrivato dopo un evento catastrofico specifico, come un ciclone o un’alluvione, ma per l’impossibilità di provvedere a se stesso e/o alla sua famiglia. Se andassimo a considerare gli altri fattori antropici anticipati in precedenza (a partire dalla distruzione delle foreste) le conclusioni sarebbero con ogni probabilità simili.
Tali fattori, intrecciandosi agli effetti del global warming, fanno del Bangladesh un paese ad altissimo rischio ambientale e hanno dei pesantissimi risvolti economici. In un contesto come questo, la distinzione tra eco-profughi e migranti economici si mostra nella sua totale impraticabilità. Ma altrove – nel delta del Niger o nelle regioni del Sahel, per esempio – è davvero più facile distinguere? In tutta franchezza ritengo di no. La fragilità economica di una regione è sempre intrecciata con la fragilità ambientale e con politiche di sfruttamento del territorio più o meno disinvolte.
Ciò, a mio avviso, non deve indurre a una frettolosa equiparazione tra migranti economici ed eco-profughi, che molti governi tra l’altro userebbero come alibi per disinteressarsi alla questione. Al contrario, dovrebbe portare a un ripensamento totale della categoria del migrante, a riconoscere l’universalità di questa figura (oggi più che mai siamo tutti migranti, in atto o in potenza), il suo diritto a essere tutelata. Tutto questo può sembrare utopico ma, in presenza di un problema serissimo e in assenza di soluzioni convincenti, si impone un cambiamento radicale di punti di vista.
Fonte: http://www.corrieredellemigrazioni.it/2014/11/28/profughi-ambientali-caso-bangladesh/
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