Le funzioni della Banca d'Italia, prima dell'Euro, erano:
a) emettere il denaro ufficiale;
b) fungere da lender of last resort (prestatore di ultima istanza) per le banche in difficoltà finanziaria;
e) fissare il tasso ufficiale di sconto;
d) fissare i tassi di cambio internazionale;
e) vigilare sulle banche di credito.
La Banca d'Italia è una banca a capitale privato e gestita in modo privato e nell'interesse dei suoi soci o partecipanti privati e senza alcun controllo democratico del Parlamento o del Governo.
Dalla fondazione a oggi
La Banca d'Italia nasce con la Legge n. 443 del 10.08.1893 dalla fusione di tre preesistenti banche e dalla liquidazione della Banca di Roma, dovuta a un colossale scandalo. Le varie banche precedentemente autorizzate a emettere la moneta legale nel Regno d'Italia, per ovvi fini, superavano le quote di emissione assegnate.
La Banca d'Italia ebbe la forma di una società anonima, ossia di una società di capitali analoga alla società per azioni. La nomina dei suoi organi amministrativi e di controllo spettava e spetta all'assemblea dei soci o partecipanti, non al Governo né al Parlamento, come si spiegherà in seguito.
Il Regio Decreto 28.04.1910 n. 204 stabilisce, al suo articolo 25, che la Banca d'Italia farà al Ministero del Tesoro anticipazioni, ossia sconti ("sconti" inteso nel senso finanziario di anticipazioni su crediti, non nel senso comune di riduzione del prezzo) sui titoli del debito pubblico al tasso dell'1,5%.
Nel 1926 il regime fascista riservò alla Banca d'Italia in via esclusiva la funzione di emettere la valuta di Stato.
Con una serie di norme, tra il 1938 e il 1994, si arrivò ad attribuire alla Banca d'Italia la denominazione di "Istituto di diritto pubblico", sebbene in realtà restasse privata a tutti gli effetti; la totale indipendenza dal controllo pubblico; il potere di fissare sia il tasso di sconto (l'interesse che lo Stato e le banche commerciali pagano per ottenere i soldi dalla Banca d'Italia) che la ragione (proporzione) dello sconto (ossia, quanto percentualmente la Banca anticipa allo Stato sui titoli del debito pubblico che questo le presenta da scontare) (art. 25 dello Statuto della Banca d'Italia). In base al suo Statuto, le nomine degli organi sia amministrativi che di controllo della Banca d'Italia, compresa quella del Consiglio Superiore dagli azionisti della Banca d'Italia stessa, i quali a loro volta sono banche private, assicurazioni private, e l'Inps. L'approvazione di talune di queste nomine da parte del Governo è un mero riscontro di legittimità.
Precisamente, l'art. 5 dello Statuto detta:
"l poteri dell'Istituto risiedono:
a) nell'assemblea generale dei partecipanti;
b) nel Consiglio superiore e nel Comitato del Consiglio superiore;
e) nel direttorio, costituito dal governatore, dal direttore generale e da due vice direttori generali".
L'art. 6 stabilisce: "L'assemblea generale convocata dal Consiglio superiore non meno di 15 giorni innanzi a quello fissato per l'adunanza, si riunisce in Roma non più tardi del 31 maggio di ciascun anno. È presieduta dal governatore. (...)"
E l'art. 7: "L'ordine del giorno dell'assemblea ordinaria viene stabilito dal Consiglio superiore e deve comprendere la approvazione del bilancio e la nomina dei sindaci e dei due supplenti. Deve pure comprendere tutte le proposte presentate al Consiglio superiore entro il mese di marzo (...)"
A mente dell'art. 17, "Il Consiglio superiore si compone:
- del governatore;
- di 13 consiglieri nominati nelle assemblee generali dei partecipanti presso le sedi della Banca in ragione di uno per ciascuna sede.
Reca l'art. 18: "Il Consiglio superiore tiene le sue adunanze in Roma sotto la presidenza del governatore. Esso nomina nella prima sua tornata di ciascun anno quattro dei propri componenti per costituire assieme al governatore il Comitato, che è parimenti presieduto dal governatore e al quale interviene pure il direttore generale con voto consultivo.
Le adunanze del Consiglio superiore sono ordinarie e straordinarie. (...) Le deliberazioni si prendono a maggioranza assoluta. Il governatore, o chi ne fa le veci, vota soltanto nel caso di parità di voti (...)
Il Comitato si riunisce di regola una volta al mese su invito del governatore (...)"
L'Art. 19 disciplina il Consiglio superiore: "Il Consiglio superiore nomina e revoca il governatore, il direttore generale e i due vice direttori generali (...).
Le nomine e le revoche debbono essere approvate con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto col Ministro per il tesoro, sentito il Consiglio dei Ministri".
Statuisce l'art. 20 che al Consiglio superiore "spetta l'amministrazione generale della Banca".
Tanto per rimarcare la radicale anomalia del sistema bancario italiano, facciamo presente che lo stesso assetto proprietario della Banca d'Italia è illegittimo e incompatibile col suo statuto.
Lo statuto del 1948, controfirmato da Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi (quel cattolico che voleva parlare solo di politica, mai di economia), afferma che la Banca d'Italia è un Ente pubblico, e l'art. 3 sancisce che la maggioranza debba essere pubblica e i soci che compongono la maggioranza debbono essere a loro volta a maggioranza pubblica. Letteralmente, stabilisce: "Le quote di partecipazione possono essere cedute, previo consenso del Consiglio superiore, solamente da uno a un altro ente compreso nelle categorie indicate nel comma precedente.
In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della banca da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici".
La Banca d'Italia si trova oggi pesantemente fuori dei requisiti di legge, poiché risulta quasi completamente posseduta da gruppi bancari e assicurativi totalmente privati: Gruppo Intesa (27,2%), Gruppo San Paolo (17,23%), Gruppo Capitalia (11,15%), Gruppo Unicredito (10,97%), Assicurazioni Generali (6,33%), INPS (5,0%), Banca Carige (3,96%), Bnl (2,83%), Monte dei Paschi di Siena (2,50%), Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%), RAS (1,33%), Gruppo La Fondiaria (2,0%) e Gruppo Premafin (2,0%).
I soci azionisti della Banca d'Italia sono, all'85% circa, banche private; al 10%, assicurazioni private. Queste percentuali sono state ricavate da un'indagine di "Famiglia Cristiana" del 4 Gennaio 2004 e de "Il Sole 24 Ore" con un'operazione di "spulcio" tra la contabilità delle banche e assicurazioni azioniste della Banca d'Italia, che sono, fortunatamente per noi, ancora tenute a dire dove investono i nostri soldi.
Ciò nonostante, continua a svolgere la funzione di pubblico servizio nella sorveglianza e la vigilanza sulle banche italiane, comprese le sue "partecipanti", con chiaro conflitto di interessi.
Ma vi è di peggio: nel corso degli anni, gli azionisti della Banca d'Italia hanno indotto i vari governi a cedere sempre maggiori poteri e maggiore indipendenza, a spese dello Stato e della collettività. In base alla nuova legge bancaria del 1994, essi operano ora nella più assoluta discrezionalità e indipendenza.
L'art. 54 dello statuto stabilisce che ai soci di Banca d'Italia debba essere ripartito l'utile nella misura massima del 6-10%. Invece, a fronte di tutta la moneta emessa, la Banca d'Italia riceve per pari importo valori e titoli mobiliari che iscrive all'attivo del proprio bilancio, mentre iscrive al passivo il controvalore corrispondente alla moneta emessa, come se questa moneta costituisse un suo debito, come se fosse da rimborsare o convertire; mentre assolutamente non lo è. Quindi la Banca d'Italia sottrae questo suo enorme reddito sia all'imposizione fiscale che alla sua naturale destinazione in favore dello Stato, e lo canalizza altrove.
Questa è la causa ultima del debito pubblico e della ricchezza smisurata dei banchieri privati.
"Con l'avvento della progettata moneta unica in Europa, analoghi e più incisivi poteri stanno per essere conferiti alla Banca Centrale Europea se non saranno riviste le clausole attuative del trattato di Maastricht.
E'ultima e più importante funzione di controllo in campo monetario, che era rimasta al Parlamento, quella di stabilire il TUS, è stata conferita anch'essa alla Banca d'Italia dall'ultimo governo Andtreotti. Il decreto legge, emanato dall'allora Ministro del Tesoro Guido Carli, ex Governatore di Banca d'Italia, è stato convertito in legge, alla stregua di una leggina estiva, quando i parlamentari avevano già le valige in mano per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Lo Stato e il Popolo Italiano hanno da allora perso totalmente la sovranità sulla propria moneta.
Nasce cosi, quasi per volontà divina, una sorta di nuova liturgia, riservata a pochi, chiamati alla carica di autorità monetarie.
Media compiacenti, e altri accondiscendenti, solo per emulare quelli maggiormente gratificati, si affannano ad accreditare l'immagine e la sacralità di queste nuove e auto-proclamate autorità.
L'edificazione di questo alone di rispettabilità, quasi ecclesiale, risulta pressoché indispensabile, giacché queste "autorità monetarie" non dispongono di alcuna legittimità costituzionale o popolare necessaria per esercitare una funzione così importante quale risulta il governamento bancario e monetario della Nazione Italia, disgiunto e separato dal Governo e dallo Stato. L'assoluta mancanza di legittimità da parte delle cosiddette "autorità monetarie" è determinata dall'autoproclamazione che si celebra all'interno dell'assemblea dei soci di Banca d'Italia, sottoposti, a loro volta, all'azione di controllo e vigilanza di Banca d'Italia stessa".
Il signoraggio
La natura privatistica della Banca d'Italia si manifesta anche nel fatto che i "partecipanti" (v. artt. 54 e 46 dello Statuto della Banca d'Italia) hanno diritto non solo al rendiconto annuale di gestione, ma pure agli utili.
Questi utili, come abbiamo anticipato, consistono non solo e non tanto negli interessi attivi che la Banca d'Italia lucra prestando denaro allo Stato e alle banche commerciali, quanto nel signoraggio, ossia nel fatto che il denaro che essa emette e presta non le costa alcunché.
All'atto pratico, politico ed economico, i "partecipanti" o proprietari della Banca d'Italia sono imprenditori capitalisti privati che, esercitando, in base a un monopolio costituito per legge, poteri sovrani attraverso la Banca medesima, influenzano fortemente l'economia, la politica, l'attività di governo (immaginiamo soltanto le conseguenze che, sul governo, hanno i rialzi del tasso di sconto: possono far saltare le previsioni finanziarie e mettere in crisi il governo stesso).
Inoltre, a questo loro strumento, ossia alla Banca d'Italia, è riservato per legge il compito di vigilanza sugli istituti di credito - il che vuol dire che i banchieri giudicano se stessi, persino quando si tratta di contestazioni di fatti illeciti commessi da banche verso soggetti diversi dalle banche come ad esempio i risparmiatori defraudati. Per giunta, queste procedure disciplinari rimangono segrete, molto più segrete delle indagini di un procedimento penale. Ad esempio, se denunci per iscritto alla Banca d'Italia un illecito commesso da una banca nei tuoi confronti, la Banca d'Italia ti risponde che esaminerà il caso, ma che tutto avverrà in via riservata e che non hai diritto a essere informato - ossia, che la cosa verrà trattata nel segreto degli affari interni della casta dei banchieri.
Il potere della Banca d'Italia
Da quanto detto sopra apparirà chiaro che la Banca d'Italia è, nella costituzione reale di questo Paese, ossia nel vero sistema di potere, il principale organo del dominio del capitale bancario sullo Stato e sulle pubbliche istituzioni - e, attraverso di questi, sui lavoratori autonomi e dipendenti, sui risparmiatori, sugli enti pubblici.
Un punto di massimo interesse nell'ordinamento della Banca d'Italia è il principio di assoluta irresponsabilità del suo Governatore.
Il Governatore della Banca d'Italia, di fatto e di diritto, è una sorta di gestore, di amministratore delegato di una s.p.a. privata. Ma, a differenza di tutti gli altri amministratori, non è responsabile delle proprie azioni e dei propri abusi. Di fatto, non viene nemmeno criticato per quelli che commette. È un intoccabile per lo Stato.
Così è avvenuto che nessuno ha chiamato il Governatore in carica nel 1992 a render conto del fatto che, nell'autunno di quell'anno, per sua propria decisione bruciò in due settimane inutilmente ben settantamila miliardi di Lire per ritardare di due settimane il crollo della Lira, quando si sapeva con certezza che la Lira stava per perdere ineluttabilmente circa il 25-30% sulle principali monete europee a causa del differenziale di svalutazione accumulato tra queste e la Lira italiana, nel corso di diversi anni, per i quali i rapporti di cambio tra le monete comunitarie erano stati bloccati, anche se le diverse monete si svalutavano a tassi molto diversi tra loro, sicché la Lira aveva perso il 30% del potere d'acquisto rispetto al Marco tedesco. Eppure l'errore o abuso era clamoroso, e il danno per lo Stato è stato enorme e noi ne paghiamo ogni giorno le conseguenze di tasca nostra, mentre quei settantamila miliardi, denari dei contribuenti italiani, si trasferirono bellamente nelle tasche degli speculatori internazionali. Non solo nessuno lo chiamò a rispondere del suo operato, o anche solo a giustificarlo, fosse anche in sede politica, come si sarebbe fatto con un ministro che avesse cagionato un simile disastro nazionale: lo fecero superministro dell'economia, capo del Governo e infine capo dello Stato. Però forse questa carriera fino ai vertici degli onori pubblici non è stata un avanzamento, ma un ridimensionamento o semipensionamento: da capo del back office a capo del front office del sistema di potere che governa lo Stato.
Non è però un Governatore della Banca d'Italia a detenere il primato postbellico di calamitosità per le sorti della nazione italiana. Il primo governo di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, infatti, comperò per 10.000 miliardi di allora, pari a 100.000 di oggi, denaro dei contribuenti, gli impianti idroelettrici della S.I.P. (Società idroelettrica piemontese spa, che con questi soldi pubblici si convertì alla telefonia finanziando lo sviluppo della tecnologia a ciò necessaria, mentre lo Stato, con quell'inutile esborso, si era privato del denaro per finanziare lo sviluppo tecnologico del settore pubblico), quando le concessioni demaniali per svolgere la sua attività e su cui si basava il valore delle azioni stavano per scadere, e bastava aspettare la loro scadenza per rilevare gli impianti dalla liquidazione della società. Ma la funzione dello Stato è appunto quella di travasare costantemente la ricchezza dalla popolazione generale ai proprietari dello Stato stesso.
Quella volta, il travaso fu coperto da una mistificazione sociale: Moro si disse, enfaticamente quanto pudicamente, che lo Stato nazionalizzava la S.I.P. per portare la luce a tutti, anche a quelle remote utenze rurali o montane, che un gestore privato del servizio elettrico, guidato dalla logica imprenditoriale, non avrebbe mai avuto interesse a collegare. Quindi era un'operazione in favore del popolo, democratica.
Nessuna formazione politica si levò per dire il contrario, perché nessun leader politico aveva interesse a denudare il meccanismo fondamentale dello Stato.
In effetti lo Stato, attraverso l'Enel, portò la luce a tutti, ma a un costo enorme per la società e con un profitto altrettanto enorme per i capitalisti finanziari, attraverso l'indebitamento pubblico contratto per quell'inutile spesa di acquisto delle azioni S.I.P. A questo costo si è aggiunto, in seguito, il fatto che l'energia elettrica in Italia è finita per costare all'utente più che in ogni altro Paese europeo. Il che dimostra concretamente che la giustificazione etico-politica data (magari in buona fede) all'operazione, mascherava un'intenzione e un interesse esattamente opposti a quelli da lui dichiarati. E mette in guardia contro le molte buone cause etiche e sociali che vengono adoperate per mascherare analoghi interessi e speculazioni, dagli aiuti ai terremotati agli aiuti al Terzo Mondo alle missioni Arcobaleno. Del resto, è del tutto irrazionale pensare che operatori politici, i quali sono guidati e condizionati dalla logica del profitto (loro proprio e dei loro sponsors finanziari), possano adoperare le buone cause a scopi diversi dal profitto stesso.
Fonte: Euroschiavi, Marco Dalla Luna e Antonio Miclavez
Fonte: Euroschiavi, Marco Dalla Luna e Antonio Miclavez
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