domenica 22 marzo 2015

Il Bangladesh e il business del gambero (I° parte): per capirne qualcosa in più


Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo, ed è anche uno dei più colpiti dalle calamità naturali. Uuragani, tornado e inondazioni colpiscono spesso il paese, che comunque non ha mai perseguito una politica ambientale degna di questo nome. 
Di per se i fenomeni che colpiscono il paese non sarebbero così gravi se non fosse per la deforestazione selvaggiaIl governo da anni accusa i paesi a monte, quali Nepal, India e Bhutan e li ritiene responsabili delle disastrose alluvioni che investono regolarmente le zone del delta del Brahmaputra. Privati della copertura vegetale, l'enorme volume d'acqua che cade durante le stagioni monsoniche, si riversa in bevissimo tempo nel delta, causando inondazioni disastrose. 
In realtà pure il territorio del Bangladesh, che in gran parte si trova sul delta di grandi fiumi che scendono dall’Himalaya, tra cui il Gange e il Brahmaputra, è stato pesantemente deforestato ed è soggetto ad un tasso di erosione altissimo. A questo si aggiungono altri problemi come l'inquinamento.
Le zone costiere o lungo i grandi fiumi dove si pratica la pesca e l'acquacoltura sono altamente inquinate da pesticidi, arsenico di origine naturale, e scarichi industriali. 
Il Bangladesh vanta un record legato alla acquacoltura dei gamberi. Il paese è il quinto importatore mondiale di gamberi di mare. Nel 2007 la produzione è stata di 30 mila tonnellate. Le ultime stime parlano di 50 mila tonn. 
Enormi distese di stagni costieri e baie, un tempo pescosissime, sono state distrutte. I contadini che un tempo coltivavano riso, sono stati scacciati, e chi si oppone viene ucciso (Fonte: Fred Pearce - Confessioni di un ecopeccatore - Edizioni Ambiente sett. 2009). 
E poi i mangrovieti, enormi distese del Sunderban, le foreste di mangrovie appunto, sono state distrutte per sempre. Viene a mancare un importante fattore naturale di protezione contro l'innalzamento del livello del mare e contro le onde di marea. 
Il Sunderban, con i suoi oltre quattromila chilometri quadrati di estensione, è la foresta di mangrovie più grande del mondo: un concentrato straordinario e imprevedibile di biodiversità. Duecento anni fa si estendeva per circa 16.700 chilometri quadrati. Oggi ne rimangono poco più di 6.000, e quelli appartenenti al Bangladesh sono solo 4.110. 
Dalla fine degli anni 70, il Balgladesh si è buttato sull’allevamento dei gamberi, dedicando a questa attività una quota di territorio che è cresciuto con un incremento del 16,6% all’anno
Già nel 1995 l’allevamento dei gamberi assorbiva 138 mila ettari. Ora al posto delle mangrovie ci sono enormi dighe artificiali che sbarrano l'acqua di mare e impediscono che questa fluisca all'interno, ove un tempo vi erano le risaie e pascoli (Fonte: Stefania Ragusa - Bangladesh inferno e delizie - Vallecchi 2008).


I gamberi del Bangladesh al supermercato

Solo su alcune confezioni vi è scritto "made in Bangladesh" poiché la lavorazione e il confezionamento spesso sono fatti altrove, in altri paesi. Comunque la maggior parte dei gamberi che acquistiamo arriva da quelle zone devastate e inquinate. 
Se facciamo attenzione alle confezioni stoccate nei banche frigoriferi, spesso troviamo scatole e/o buste con la dicitura: gamberi indiani, si tratta, almeno nella maggioranza dei casi, della specie Parapenaeopsis stylifera. Oppure si possono trovare quelli vietnamiti (perchè allevati in Vietnam), della specie Penaeus monodon, oppure ancora i cosidetti "gamberi selvaggi" dell'Oceano Indiano. In questo caso le confezioni contengono un misto di Metapeneaus monoceros, M. dobsoni e M. affinis. A volte si trova pure M. ensis e M. brevicornis. Frequentemente troviamo pure i gamberi argentini Pleoticus muelleri, che sono pescati e non allevati, almeno secondo le fonti di cui disponiamo al momento, oppure del genere Hymenopenaeus, più precisamente H. muelleri.


Il Sunderbans (Fonte: GenovaPress)

Il Sunderbans, con i suoi oltre quattromila chilometri quadrati di estensione, è la foresta di mangrovie più grande del mondo: un concentrato straordinario e imprevedibile di biodiversità. Due volte al giorno essa viene completamente ricoperta dalle maree. I sundari tree, che sono le piante più comuni e anche quelle che danno il nome a quest'area, crescono nell'acqua e circondano la moltitudine di isole fluviali che il Gange e il Brahmaputra hanno formato nel tempo trasportando i detriti fino al loro immenso delta. Questi alberi anfibi, che affondano le radici nel letto del fiume e si allungano verso il cielo (raggiungendo anche i venticinque metri di altezza) si addentrano lungo i canali, cedendo poi il passo agli arbusti intricati della foresta pluviale di pianura. 
L'Unesco ha dichiarato questa foresta patrimonio dell'umanità. 
Quando è arrivato Sidr essa ha dimostrato anche di essere un fattore di protezione imprescindibile per il Bangladesh. Il ciclone l'ha letteralmente fatta a pezzi (più di un quarto degli alberi sono stati spezzati o divelti) ma, se non l'avesse incontrata, il bilancio sarebbe stato ben più grave. La vegetazione, infatti, ha protetto l'entroterra e attutito la forza del vento. Se la situazione fosse stata quella di quarant'anni fa, quando le mangrovie lambivano le città di Khulna e Bagerhat e ricoprivano l'intera zona di Chokoria, i danni sarebbero stati ancora minori. 
Oggi il governo bangladese invita la comunità internazionale ad aiutarlo a soccorrere e proteggere il Sunderbans. Il World Heritage Center ha avanzato, al riguardo, una formale richiesta di fondi. A prima vista potrebbe apparire una mossa comprensibile e legittima. Ma, a guardar bene, non lo è affatto. Lo stesso governo, infatti, in contemporanea incentiva e sostiene l'allevamento intensivo del gambero, cioè l'industria che rappresenta la grande minaccia per la foresta e che è stata la prima causa della sua progressiva riduzione. Il governo, in particolare, sta dando il massimo appoggio ai proprietari degli allevamenti che dichiarano di essere stati danneggiati da Sidr. In altre parole, Dhaka chiede soldi per il Sunderbans mentre si sta attivando per continuare a distruggerlo. 


Dove una volta cresceva il riso

Burigaolini si trova quasi dentro la foresta, al confine con l'India. Burigaolini, in bengali, vuol dire «vecchia venditrice di latte». Un nome come questo non viene dato a caso. Nel passato, in questa località, pascolavano tanti bovini. 
Cresceva anche il riso. La sua paglia era il principale foraggio per le mandrie. Il limo che restava sul terreno dopo le piene rendeva i campi fertilissimi. 
Adesso, per chilometri e chilometri, si vedono solo ghers, le vasche dei gamberi. Sidr le ha strapazzate appena. 
Sono stagni grigi dove l'acqua salata viene incanalata e trattenuta. Non c'è traccia di mucche. Camminiamo sotto un sole così caldo da sembrare fuori stagione, abbagliati dalla luce che si riflette sulla superficie liquida. E' venerdì, è festa e attorno alle vasche si affanna poca gente. Un anziano scheletrico vestito col suo lungi (il pareo portato dagli uomini bangladesi) ci fissa, fermo sul sentiero con aria interlocutoria. Non si vedono molti bianchi, schadachambra, da queste parti. Assalam Aleikum, dico. Aleikum Salam, risponde, e comincia a camminare al mio fianco. Sembra avere molta voglia di chiacchierare. Non di Sidr. Ma della sua giovinezza. «Non avevo soldi, nessuno ne aveva qui. Ma il necessario per vivere non mi è mai mancato», comincia. «Oggi ho qualche taka ma manca tutto il resto». Colpa dei gamberi: «Stanno meglio di noi: 
hanno acqua e cibo in abbondanza. E le medicine, se si ammalano». «L'acquicoltura, in realtà, veniva praticata anche prima ma non nella forma fagocitante tipica della monocoltura», spiega Luigi Paggi, un missionario saveriano. "Si allevavano i gamberi ma anche altri tipi di crostacei e pesci. Si coltivava il riso, si coltivavano le verdure. Le donne, in particolare, allevavano animali da cortile. Anche chi non possedeva un campo poteva coltivare le terre libere che appartenevano al governo, le khas, e in certi periodi dell'anno tutti avevano il diritto di prendere ciò che cadeva dagli alberi. Si trattava di un tipo di solidarietà diffusa e condivisa. In inverno venivano chiusi i canali che entravano nella terraferma. Con le piogge, verso maggio o giugno, si tornava a liberarli. Il terreno era protetto dal sale per quasi tutto il tempo. Nessuno era ricco, ma nessuno moriva di fame". 
A lavorare e ad abitare queste terre erano quelli che ci erano nati. Adesso, invece, vengono da fuori gli operai che innalzano gli argini per trattenere l'acqua salata e i guardiani che impediscono l'accesso alle khas. "Il sale si è infilato dappertutto. Per noi è difficile trovare anche l'acqua per bere", aggiunge il vecchio. Un vero paradosso, in un paese sospeso sui fiumi.


30 mila tonnellate all'anno di gamberi

Forse non bisogna dare troppo credito agli anziani quando si mettono a rimpiangere il passato, mi dico. Ma ogni dettaglio, nella desolazione che ci circonda, rende le parole che ho ascoltato tremendamente plausibili. All'altezza di un sundari senza più foglie, spettrale e solitario, c'è una costruzione in muratura, intonacata di bianco e circondata da una palizzata. Certamente molto più robusta dei rifugi anticiclone di cui si è tanto parlato in questi giorni. E' la casa del landlord, signore delle terre e, probabilmente, dei ghers. Anche lui, come tutti i proprietari, abita in città. 
Viene periodicamente, oppure manda i suoi emissari, per riscuotere gli affitti. In teoria è anche lui una vittima di Sidr. 
La cosiddetta Shrimp Region comprende i distretti di Satkhira (dove si trova Burigaolini), Khulna, Bagerath e la parte meridionale di quello di Jessore. 
Circa 190mila ettari di mangrovie e terre fertili, più o meno nel tempo di una generazione, sono stati convertiti in bacini di acquicoltura. In totale, il "raccolto" annuo sfiora le 30mila tonnellate, esportate per l'ottanta per cento in Occidente e per il venti in Giappone. I bangladesi non mangiano i bagda che allevano. Possono permettersi, al massimo, i golda, i gamberi di fiume. 
La coltivazione intensiva è cominciata all'inizio degli anni '80, con la sponsorizzazione di alcune agenzie di sviluppo (come Usaid) e istituzioni finanziarie (come la Banca mondiale e la Banca di sviluppo asiatica)
Gli speculatori si mossero in massa per accaparrarsi le terre più adatte all'allestimento di shrimp farm. Dove queste non c'erano, si industriarono a "crearle": facendo scempio della foresta ed espropriando con qualsiasi mezzo i terreni agricoli. Con qualsiasi mezzo non è un modo di dire. 
Nel 1998, l'Alta Corte del distretto di Satkhira aveva emanato una disposizione con cui si impediva di affittare determinati terreni dello Stato agli imprenditori del gambero. Era una misura volta a proteggere un gruppo di 1200 contadini-pescatori che stavano rischiando di perdere le loro case. A distanza di pochi mesi, l'amministratore del distretto, messo sotto pressione da persone potenti e facoltose, decise di ignorare l'Alta Corte e stabilì che si poteva procedere all'affitto. I contadini furono portati via con la forza. Scoppiarono dei disordini e la polizia privata aprì il fuoco, ferendo 250 persone e uccidendone quattro. Tra queste c'era una donna molto coraggiosa, Zaheda Begum, che guidava un'associazione di senza terra, Kisani Sabha. L'ong inglese Environmental justice foundation riferisce che dal 1980 al 2005 sono stati uccisi più di 150 bangladesi che si erano opposti agli allevamenti. Questa cifra, però, è probabilmente approssimata per difetto. Perché non tiene conto delle centinaia di morti ascrivibili solo indirettamente al gambero. Persone che sono state messe in prigione per avere opposto resistenza alla speculazione e dimenticate lì, o che si sono ammalate irrimediabilmente per le conseguenze di una vita passata a mollo nell'acqua paludosa.


I danni dell'acquicoltura

Ashraf-Ul-Alam Tutu, coordinatore dell'organizzazione Coastal Development Partnership di Khulna è uno dei pochi, in Bangladesh, ad aver fatto ricerche sistematiche sulle conseguenze dell'industria del gambero. «Questo modo di fare acquicoltura ha fatto molti danni», dice. «Richiede meno manodopera rispetto all'agricoltura tradizionale e, quasi sempre, utilizza lavoratori forestieri. Sono stati creati nuovi posti di lavoro, come sottolineano i sostenitori delle shrimp farm, ma molti di più ne sono stati eliminati. Gli abitanti dei villaggi hanno visto sfumare il loro diritto a usufruire delle risorse ambientali pubbliche. Oggi devono acquistare pesce, riso, verdura. Non ci sono più pascoli, quindi non ci sono più animali e non c'è più sterco. Per riscaldarsi o cucinare bisogna prendere la legna nella foresta. Questo vuol dire: spese aggiuntive e un'ulteriore minaccia per il Sunderbans. Nella foresta la vegetazione sta morendo, prosciugata dal sale, e i pesci d'acqua dolce sono praticamente spariti. Gli uccelli fanno fatica a trovare le bacche, i frutti e gli insetti di cui si nutrivano. Le rane e le lontre sono state uccise perché mangiavano i gamberi e le loro larve. Come ha messo in evidenza anche Sidr, la distruzione delle mangrovie ha reso la terra sempre più vulnerabile agli attacchi della natura. La terra, le strade e anche le capanne di fango, seccate dal sale ed esposte all'azione dei fiumi, si sgretolano, si sciolgono, si lasciano portare via». 
L'allevamento del gambero sta danneggiando tutti ma, in particolar modo, le donne. Secondo Nijera Kori, una ong locale impegnata nella difesa dei contadini senza terra, l'aumento della violenza contro le donne è una delle tante conseguenze 
nefaste della politica agricola che ha trasformato il sud del Paese in un gigantesco allevamento di gamberi. Dalle altre regioni arrivano sciami di lavoratori stagionali, senza nessun legame col territorio, senza mogli, senza un tetto. I responsabili della maggior parte delle violenze sarebbero tra loro. Prima dei gamberi le donne potevano guadagnare qualcosa e contribuire all'economia familiare allevando animali domestici e coltivando ortaggi. Non si trattava di grosse somme, ma comunque quei soldi erano sufficienti a dar loro una certa autonomia e, quindi, a farle rispettare di più. Adesso questa possibilità è tramontata e, se anche volessero riciclarsi, l'acquicoltura non ha bisogno di braccia femminili. Preferisce quelle forti e disincantate di operai forestieri, che emigrano al sud solo per lavorare nelle vasche e non hanno legami con la terra che li ospita. Alle donne non è rimasto che unirsi ai bambini. Insieme passano ore e ore dentro l'acqua stagnante, senza guanti o gambali di protezione, cercando larve da rivendere agli allevatori. Il guadagno è pressoché irrilevante. In compenso, senza rendersene conto, contribuiscono ad aggravare l'impatto ambientale. Per ogni larva di gambero raccolta, infatti, centinaia di altre, appartenenti a creature dell'acqua meno appetibili dei gamberi ma necessarie alla biodiversità, vengono abbandonate sulla riva.


Chi si arricchisce con i bagda?

Il Bangladesh è il quinto esportatore mondiale di gamberetti. C'è però chi non si accontenta e punta a scalare la classifica. La già citata Usaid, per esempio, ha avviato nel 2003, con l'avallo del governo e la collaborazione di organismi locali, un piano di supporto e assistenza per debellare, a forza di antibiotici, una serie di malattie dei gamberi che limitano la produzione. Secondo le previsioni degli «sviluppisti» americani, dopo cinque anni di cure, le entrate dovrebbero salire dagli attuali 292 milioni di euro a 1,25 miliardi. Può sembrare allettante: più soldi, più posti di lavoro, più ricchezza, più benessere. 
Ma la questione non può essere considerata solo dal punto di vista del fatturato. Tanto più che, tutti questi milioni, non vanno a sollevare i poveri dalla miseria, ma si concentrano nelle tasche di pochi che, probabilmente, non hanno mai neanche dovuto avvicinarsi a un ghers. 
Pochi hanno avuto fino ad ora il coraggio di indagare seriamente su chi si sta arricchendo con i bagda. Qualche tempo fa, dalle parti di Khulna, ci aveva provato un bravo giornalista: Manik Chandra Saha, capo redattore del Daily New Age e corrispondente della Bbc. E' stato ucciso da un gruppo di sicari nel gennaio del 2004, mentre tornava a casa in rickshaw. Aveva cominciato a ricevere minacce di morte nel 2000, dopo la pubblicazione di un piccolo volume su, guarda caso, la coltivazione dei gamberetti.


Fonte: http://www.biologiamarina.eu/Allevamento_Gamberi.html

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