domenica 31 marzo 2013

Igiene personale (naturale) fai da te (II parte): lo shampo



Ingredienti

Bicarbonato di sodio
Acqua
Miele (opzionale)
Farina di ceci (opzionale)
1 contenitore con chiusura ermetica (di plastica o di vetro)

Aceto di mele
Acqua
1 flacone di plastica (tipo quello di uno shampo comune un commercio)


Preparazione

Mettere nel contenitore bicarbonato di sodio (1/2), acqua (1/2) e un cucchiaio di miele (è opzionale ma consigliato). Mescolare fino ad ottener una pappetta con consistenza poco più liquida di quella di un normale dentifricio.

Riempire un flacone di plastica (lavato e lasciato asciugare) con 1/4 di aceto di mele e 3/4 di acqua. Chiudere con il tappo e scuotere violentemente.


Utilizzo

Dopo aver inumidito i capelli, applicare il primo composto in piccole quantità, procedendo pian piano, massaggiando e pettinando il cuoio capelluto. 
Risciacquare abbondantemente.

Applicare poco alla volta e in piccole quantità il composto acqua-aceto, sempre massaggiando con cautela e pettinando.

Risciacquare abbondantemente e procedere con la normale asciugatura.

Chiudere contenitore e flacone e preservarli per il prossimo lavaggio.


Suggerimenti

Per l'applicazione di entrambe le soluzioni procedere pian piano, usando piccole dosi,  massaggiando con calma e pettinando bene i capelli. 
In questo modo bicarbonato (con miele) e aceto riescono ad arrivare alla sorgente del capello e a svolgere in pieno il loro compito, che è di pulizia per il primo e di donare volume e lucentezza per il secondo.
Prima del risciacquo lasciar agire la soluzione sui capelli per qualche minuto.

Circa la preparazione dei composti non esagerare con la dose di aceto; modificare le quantità dei singoli ingredienti in base ai gusti e ai risultati ottenuti (e voluti) sui capelli.
Lo shampo è adatto a tutti i tipi di capelli, non lascia odori e dona morbidezza e pulizia a questi.


Per capelli grassi

In presenza di capelli particolarmente grassi aggiungere al composto bicarbonato-miele-acqua  uno o due cucchiai di farina di ceci; in alternativa usare un mix di sola farina di ceci (1/4) e acqua (3/4).

Igiene personale (naturale) fai da te (I parte): gli ingredienti

Bicarbonato di sodio



L'idrogenocarbonato di sodio o carbonato acido di sodio o carbonato monosodico (o bicarbonato di sodio che è il nome più comune) è un sale di sodio dell'acido carbonico. 
In natura, oltre che frequentemente disciolto nelle acque superficiali e sotterranee, è presente raramente come minerale, generalmente sotto forma di efflorescenze, incrostazioni 
e masse concrezionate in depositi di tipo evaporitico.
A temperatura ambiente, l'idrogenocarbonato di sodio si presenta come una polvere cristallina bianca.
Industrialmente il bicarbonato si produce tramite il metodo Solvay. Esso consiste nel far passare ammoniaca e anidride carbonica in una soluzione di cloruro di sodio, la reazione che avviene produce cloruro di ammonio e bicarbonato di sodio.
Per l'igiene personale fai da te è un elemento fondamentale, usato per molteplici usi (vedi il post seguente).


Oli essenziali


Gli oli essenziali o oli eterici sono prodotti ottenuti per estrazione a partire da materiale vegetale aromatico, ricco cioè in "essenze". 

Le essenze vengono prodotte dalle piante per molteplici ragioni, e in alcuni casi forse anche come scarti. Le ipotesi più forti vogliono che le essenze svolgano funzione allelopatica, antibiotica, di attrazione degli impollinatori, e fungano da intermediari di reazioni energetiche.
Una volta estratti si presentano come sostanze oleose, liquide volatili e profumate come la pianta da cui provengono.
Sono molto abbondanti in certe famiglie di vegetali e la quantità contenuta in una pianta dipende dalla razza, dal clima e dal tipo di terreno.
Le metodologie di estrazione di olio essenziale sono la distillazione in corrente di vapore, la spremitura a freddo (delle bucce o epicarpo dei frutti del genere Citrus), e per alcune autorità anche la distillazione a secco o distruttiva.
Il loro ruolo per l'igiene fai è da te è dare l'aroma. I più utilizzati in questo campo sono quello alla menta piperita e al tea tree.


Salvia officinalis


La Salvia officinalis è una pianta a portamento cespuglioso, con fusto molto ramificato e foglie picciolate di colore grigio-verde, ricche di oli essenziali che le conferiscono il caratteristico aroma. I fiori sono ermafroditi, di colore violetto e sbocciano in primavera.

Per l'igiene personale (denti) sono usate foglie di salvia fresche o secche e sbriciolate.



Argilla



L'argilla è un sedimento non litificato estremamente fine (le dimensioni dei granuli sono inferiori a 2 μm di diametro) costituito principalmente da allumino-silicati idrati appartenenti 
alla classe dei fillosilicati. I minerali che compongono l'argilla sono tutti appartenenti alla sottoclasse dei fillosilicati e definiti collettivamente minerali argillosi.
L'argilla rappresenta una miscela viva di sostanze alluminio-silicilate che deriva dalle rocce granitiche. La sua particolare composizione chimica, ha permesso all'argilla di essere sfruttata in molti ambiti terapeutici: prima di tutto è una sostanza rimineralizzante, grazie alla presenza di silice, magnesio, ferro, alluminio e calcio.
Per l'igiene personale (denti e capelli) è utilizzata sia l'argilla bianca che l'argilla verde.



Aceto



L'aceto è il liquido acido ottenuto grazie all'azione di batteri Gram-negativi del genere Acetobacter, i quali, in presenza di aria e acqua, ossidano l'etanolo contenuto nel vino, nel sidro, nella birra, nell'idromele (da cui si ricava il cosiddetto "aceto di mele") e in altre bevande alcoliche fermentate, oppure in altre materie prime quali malti, riso e frutta (anche mosto cotto), trasformandolo in acido acetico.
Per l'igiene personale (capelli) l'aceto usato è quello di mele.


sabato 30 marzo 2013

Isole di rifiuti in mare (III parte). il Mediterraneo



Come nell'Atlantico e nel Pacifico, anche nel Mediterraneo occidentale tra Italia, Spagna e Francia galleggiano 500 tonnellate di plastica, con una concentrazione maggiore di quella dell'isola galleggiante nell'oceano Atlantico e quella ancora più grande presente nel Pacifico
Lo dice la ricerca "l'impatto della plastica e dei sacchetti sull'ambiente marino", realizzata da Arpa Toscana e dalla struttura oceanografica Daphne di Arpa Emilia Romagna su richiesta di Legambiente. 

Nel corso dell'indagine, in una sola ora nell'arcipelago toscano con reti a strascico sono stati raccolti 4 chili di rifiuti, di cui il 73% in materiale plastico, soprattutto sacchetti. 
«Ormai il fondo del mare italiano ha un vero e proprio tappeto di rifiuti», ha confermato Fabrizio Serena, di Arpa Toscana. «In Adriatico sono dovuti soprattutto all'apporto dei fiumi, mentre nel Tirreno i responsabili sono prevalentemente i traghetti».

Secondo lo studio, la plastica costituisce il 60-80% dei rifiuti in mare e in alcune aree il dato arriva al 90-95%. Expedition Med, su quaranta stazioni analizzate al largo di Francia, Spagna e Nord Italia, nel 90% dei casi ha riscontrato la presenza di rifiuti in plastica, prevalentemente frammenti del peso medio di 1,8 milligrammi, entro 20 centimetri dalla superficie dell'acqua. Secondo l'Istituto francese di ricerca sullo sfruttamento del mare (Ifremer) e l'Università di Liegi, nell'estate 2010 la concentrazione più alta nel Mediterraneo 
era nel nord del Tirreno e a largo dell'isola d'Elba con 892 mila frammenti plastici per chilometro quadro, rispetto a una media di 115 mila. 

L'Italia è un Paese doppiamente esposto al problema della plastica e alla dispersione dei sacchetti in mare, sia perché è la prima nazione per consumo di sacchetti di plastica "usa e getta", visto che ne commercializza il 25% del totale dell'intera Europa, ma anche perché si affaccia sul Mediterraneo, coinvolto come i mari dall'inquinamento da plastica. Per queste ragioni in Italia la Finanziaria 2007 ha decretato il bando sugli shopper non biodegradabiliin vigore dal 1° gennaio di 2008.

La grande quantità di plastica in mare, soprattutto sacchetti, causa gravi danni alla fauna marina. A farne le spese sono soprattutto i mammiferi marini e le tartarughe che scambiano le parti di sacchetti di plastica per meduse, come testimoniano numerosi studi. Secondo il Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep) e l'Agenzia di protezione ambiente svedese, di 115 specie di mammiferi marini, 49 sono a rischio intrappolamento o ingestione di rifiuti marini. Nelle tartarughe il sacchetto di plastica, scambiato per una medusa, provoca il blocco del tratto digestivo e il conseguente soffocamento. Di 312 specie di uccelli marini, 111 sono note per aver ingerito rifiuti plastici. Tra i 700 mila e un milione di uccelli marini rimangono ogni anno uccisi per soffocamento o intrappolamento.

Isole di rifiuti in mare (II parte): l'isola dell'Atlantico



A centinaia di miglia dalla costa americana, non lontano dal Mar dei Caraibi è stata rilevata, dopo la Pacific Garbage Patch, la seconda isola gigante di immondizia, questa volta nell'Atlantico.
Questa si estende nell’area che copre una regione tra i 22 e i 28 gradi di latitudine nord (approssimativamente la distanza che corre da Cuba alla Virginia), in corrispondenza del nord della Florida.

Si stima sia grande quasi il doppio dell’Italia e composta principalmente di rifiuti di plastica galleggianti. 
Si è formata per effetto delle correnti marine che accumulano la spazzatura in aree  concentrate. 
Un gruppo di scienziati statunitensi ha monitorato per 22 anni quest’atollo, contando nei punti di massima densità qualcosa come 200 mila frammenti di bottiglie, buste e altri prodotti di plastica per chilometro quadrato
L’aspetto paradossale è che le dimensioni del vortice non sono aumentate in maniera significativa negli ultimi due decenni, di fronte alla crescita (significativa) della produzione di plastica. Tutto ciò, nonostante la comparsa e l'incentivo della raccolta differenziata, avvenuti in epoca molto recente, è difficilmente spiegabile. Si pensa a riguardo che i frammenti più piccoli siano sfuggiti al conteggio e non siano quindi stati conteggiati (quindi errore umano di lettura) come prima ipotesi, o che i detriti siano stati ricoperti dalle alghe e siano diventati abbastanza pesanti da affondare intossicando l’ecosistema marino come seconda ipotesi. 

La plastica infatti non è indistruttibile come si pensa: si decompone in mare aperto per esposizione alle intemperie rilasciando numerosi composti tossici, che possono venir assorbiti dai pesci e altri organismi mettendo a rischio la loro vita e la capacità riproduttiva. Questi sono soprattutto gli animali acquatici che si cibano di plancton, come le meduse (che appunto non riconoscono la plastica e se ne cibano), le tartarughe marine e gli altri animali che si cibano di questi, compresi quelli non acquatici come gli uccelli.

venerdì 29 marzo 2013

Isole di rifiuti in mare (I parte): il Pacific Trash Vortex


Il Pacific Trash Vortex, noto anche come Grande chiazza di immondizia del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch), è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (composto soprattutto da plastica) situato nell'Oceano Pacifico.

La sua estensione non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km² (cioè da un'area più grande della Penisola Iberica a un'area più estesa della superficie degli Stati Uniti), ovvero tra lo 0,41% e il 5,6% dell'Oceano Pacifico.
Valutazioni ottenute indipendentemente dall'Algalita Marine Research Foundation e dalla Marina degli Stati Uniti stimano l'ammontare complessivo della sola plastica dell'area in un totale di 3 milioni di tonnellate; nell'area potrebbero essere contenuti fino a 100 milioni di tonnellate di detriti.

L'esistenza della Grande chiazza di immondizia del Pacifico fu preconizzata in un documento pubblicato nel 1988 dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli  Stati Uniti.
Queste indagini trovarono elevate concentrazioni di detriti marini accumulati nelle regioni dominate dalle correnti marine.
Una chiazza similare di detriti è presente anche nell'Oceano Atlantico.


Il centro di tale vortice è una regione relativamente stazionaria dell'Oceano Pacifico (ci si riferisce spesso a quest'area come la latitudine dei cavalli) al cui centro si accumulano notevoli quantità di rifiuti, soprattutto plastica, e altri detriti, a formare una enorme "nube" di spazzatura.
I rifiuti galleggianti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione, e in questa zona oceanica quindi si sta accumulando una enorme quantità di materiali non biodegradabili come la plastica e rottami marini. Anziché biodegradarsi, la plastica si fotodegrada, disintegrandosi in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono, la cui ulteriore biodegradazione è molto difficile. La fotodegradazione della plastica può produrre inquinamento da PCB.
Il galleggiamento di tali particelle, che apparentemente assomigliano a zooplancton, inganna le meduse che se ne cibano, causandone l'introduzione nella catena alimentare. In alcuni campioni di acqua marina presi nel 2001 il rapporto tra la quantità di plastica e quella dello zooplancton, la vita animale dominante dell'area, era superiore a sei contro uno.

L'inquinamento in mare è dovuto anche alle perdite di carico delle navi trasportatrici di merci.
La più famosa è avvenuta nel 1990, quando dalla nave Hansa Carrier sono caduti in mare ben 80.000 articoli, tra stivali e scarpe da ginnastica della Nike;  nel 1992 sono caduti in mare decine di migliaia di giocattoli da vasca da bagno e nel 1994 attrezzature per hockey su ghiaccio.
Altro episodio che ha aggravato la situazione è stato il maremoto del 2011 che ha riversato in mare notevoli quantità di rifiuti, di cui però solo una minima parte composti di plastica.

giovedì 28 marzo 2013

L'uomo e il cibo (III parte): siamo quello che scegliamo di mangiare


Noi siamo quanto mangiamo e quello che mangiamo.
In più, con l'avvento della meccanizzazione e dell'industrializzazione, con la conseguente  diminuzione dei prezzi e il conseguente aumento di quantità dei prodotti, siamo quello che scegliamo di mangiare.

Scelta che un tempo era a monte del consumo, e riguardava quali piante mettere nell'orto, quali alberi innestare nel frutteto, quali animali allevare per avere carne, latte e uova; poco riguardava cosa mangiare. Si mangiava quel che c'era, a seconda della stagione e dell'annata più o meno favorevole.

Ai tempi nostri la scelta riguarda il consumo, cioè cosa e quanto mangiare, poichè il passaggio si è trasferito da produttori a consumatori puri.
Questa avviene tra le corsie di un supermercato e di un negozio (tra scaffali più o meno pieni e tra frigo e freezer forniti di cibo di ogni provenienza e ogni conservazione), o tra l'elenco di una lista (più o meno lunga) se non si ha tempo o la possibilità di cucinare e si mangia in un fast-food o in un ristorante.

L'era del petrolio ha modificato molto le quantità a disposizione e il tipo di alimenti presenti sul (nuovo) Mercato alimentare, nonché il prezzo di questi.
La meccanizzazione, le monocolture e i fertilizzanti-antiparassitari, hanno permesso l'invasione a basso prezzo dei cereali, della carne, dei derivati animali (formaggio, uova) e del pesce, in passato un lusso e ora normalità a tavola.
Il tutto di fronte alla comparsa di nuovi problemi ambientali ed ecologici: perdita di fertilità dei terreni (con conseguente aumento della desertificazione), inquinamento in atmosfera causa allevamento e nel suolo causa fertilizzanti, diminuzione del livello delle falde idriche causa allevamenti e coltivazioni assetati,...

Fatto sta che l'occidentale è passato da scegliere cosa mangiare tra una patata e un broccolo d'inverno o tra un pomodoro e un peperone d'estate (chiaramente con in più pane e dolci tipici una tantum), a scegliere tra un'infinità di prodotti, confezionati o freschi, di stagione o fuori, del proprio paese o dell'altro continente.
Scelta che, nel mutarsi di contesto, è diventata spesso quella del frigo pieno, della ricerca dell'abbinamento tra sapori perfetto, del primo piatto ancora pieno gettato nella spazzatura.
Scelta che spesso si è auto-rinnegata come significato, vale a dire è diventata un non scegliere, cioè un avere a disposizione il più possibile e poter mangiare a piacimento tra questo.

Il ciclo della natura vuole però la sua parte. 
Non si può aver tutto, a meno di non pagarlo caro (e non si parla solo di soldoni).
I problemi ecologici e quelli etici-morali (circa gli allevamenti intensivi e il trattamento riservato agli animali, con la conseguente deriva del rapporto tra allevatore e animale allevato) nati dall'evoluzione del Mercato alimentare, si fanno sempre più spazio nelle menti e nel cuore dei cittadini del frigo sempre pieno.
Nuovi interrogativi irrompono nella lotta "aver tutto-ma a che prezzo".
E allora: meglio tradizionale (cioè intensivo) o bio? Meglio globale o locale? 
Per poi arrivare al: meglio onnivoro o vegetariano? Meglio vegetariano o vegan? Meglio vegan o crudista (o fruttariano)?

Interrogativi che portano inevitabilmente a nuove scelte.
Scelte riguardanti la critica del modello del presente o la voglia di un futuro meno inquinante e più sostenibile, o più giusto (per i diritti degli animali); o ancora scelte per cercare di pesare meno come impronta ecologica o come impatto ambientale.
Scelte che inevitabilmente passano da una riflessione sul presente e da una speranza per il futuro.
E nuove scelte che spesso portano alla modifica delle proprie abitudini alimentari e all'influenza verso quelle degli altri e dell'economia alimentare.
Scelte che comunque sia sono un diritto e, di fronte a una realtà che non va come la si vorrebbe, un obbligo.

mercoledì 27 marzo 2013

L'uomo e il cibo (II parte): siamo quello che mangiamo


Oltre a quanto mangiamo, noi siamo quello che mangiamo.
Il cibo non è solo energia per vivere e carburante della vita; è molto di più, è lo specchio della società

Dando uno sguardo alla storia si può notare la correlazione tra cibo e società, nonché tra cibo e individui della società.

I nostri avi più lontani erano raccoglitori (di frutta selvatica, bacche e funghi) e cacciatori
Il cibo che avevano a disposizione e che la natura offriva loro nei boschi e nei campi variava a seconda del luogo e delle stagioni, ma era sempre in quantità incostante e spesso misero. Era consumato crudo, era quindi molto nutriente e nulla di questo veniva sprecato. Le scorte erano poche (quasi nulle) e la vita molto alla giornata. I gruppi di individui (tribù) erano per giunta nomadi e si spostavano in base alla presenza o all'assenza del cibo. L'obbiettivo principe era la sopravvivenza e la lotta alla fame il comandamento principale. 
La società era (come il suo cibo) selvatica, abituata alla lotta per vivere giorno dopo giorno, senza vizi e senza sprechi di risorse, con individui dal fisico asciutto e scattante, agile e pronto a cogliere l'attimo.

L'agricoltura, l'allevamento, l'uso dei metalli e del fuoco sono poi stati i principali elementi per il passaggio dal nomadismo allo stazionarismo e hanno visto la prima comparsa di scorte importante (in rapporto al periodo storico, al luogo e all'evoluzione delle tecniche). 
Grazie alla maggior disponibilità di cibo, dovuta alla creazione di sempre migliori strumenti di lavoro, alla maggior conoscenza dei processi produttivi e al perfezionamento dei metodi di  conservazione, la società si è potuta concentrare anche su altre attività non legate alla sola ricerca e produzione di cibo. Le tribù sono diventate dapprima villaggi stabili, e poi (con il miglioramento delle tecniche costruttive), paesi e città. Sono comparsi i "lavori", le attività ricreative, le feste e, ahimé, i primi vizi. 
La società di questo periodo rimane comunque legata alla non elevata quantità di cibo disponibile, al legame imprescindibile con l'ambiente naturale e quindi con l'avvicendarsi delle stagioni, con l'influenza del tempo, con l'abitudine a carestie. 
Questa società era estremamente naturale, con qualche vizio e con pochi sprechi di risorse, 
con individui meno agili dei precedenti ma più forti e robusti.

L'evoluzione e la consacrazione dei quattro elementi nuovi della precedente società (agricoltura, allevamento e uso dei metalli e del fuoco), accompagnata dall'arrivo dell'industrializzazione e della meccanizzazione (e dell'inizio dello sfruttamento dei combustibili fossili) ci porta alla società appena precedente all'attuale. 
L'aumento della resa dei processi agricoli (con l'introduzione dei primi concimi chimici) e il miglioramento dei metodi di conservazione hanno reso maggiori sia le quantità di cibo a disposizione che le scorte per il futuro. La società ha a questo punto potuto dedicarsi ad altro rispetto alla sola produzione del cibo. Le città si sono espanse, nuovi lavori sono nati, la campagna è stata gradualmente abbandonata come luogo di residenza. Accanto a questo sono nati nuovi vizi e per la prima volta il concetto di spreco di risorse fa la comparsa.
La società appena precedente alla nostra rimane legata alla terra (e all'agricoltura e all'allevamento) ma in maniera minore della precedente. 
(Proprio come il suo cibo) E' meno naturalecon individui meno sani, meno forti e più pesanti, più abituati a fabbriche e catene di montaggio, più inquinati, più propensi al vizio e allo spreco di risorse.

L'ultima società, cioè l'attuale, è la società della consacrazione dell'industrializzazione e della meccanizzazione e della loro espansione definitiva a tutti i settori. E' l'era del petrolio, dell'uso pesante di fertilizzanti e anti-parassitari in agricoltura e di ormoni della crescita e antibiotici nell'allevamento; è l'era delle rese incredibili, dell'abbondanza del cibo, della tecnologia massima per conservarlo. E' l'era dei mille lavori, delle città immense, del commercio esasperato (non solo del cibo), nonché dei vizi e degli sprechi.
La società odierna ha poco di naturale. E' anzi fortemente inquinata, con individui in sovrappeso, poco in forma, abituati ad aver il superfluo e pieni di vizi.

Un tempo si mangiava selvatico e i nostri predecessori erano agili e scattanti. Ora si mangiano i prodotti del petrolio e siamo depressi e inquinati, obesi e pieni di intolleranze.
Noi siamo quello che mangiamo. Meglio non dimenticarselo mai.

martedì 26 marzo 2013

L'uomo e il cibo (I parte): siamo quanto mangiamo



Se solo un attimo riuscissimo a fermarci ed analizzarci, o addirittura a vederci da fuori con gli occhi di un estraneo, riusciremmo a capire di più sul nostro rapporto col cibo.

Il cibo è molto nella nostra vita. Il cibo è molto della nostra vita.
Il cibo ci rappresenta, ci caratterizza, come persone e come comunità.
La quantità di cibo che consumiamo, in egual modo, dice molto su di noi e sulla comunità di cui facciamo parte.

Il Mercato (con la sua alleata pubblicità) ci vuole mangiatori mai sazi. Ci vuole obesi, mai disposti a rinunciare.
Ci vuole poco lucidi, guidati dall'appetito divorante, assuefatti da cioccolato e patatine fritte.
Ci vuole sopperire alle insoddisfazioni di una vita da macchine abbuffandoci di take away e pizza surgelata maxi, fumante in dieci minuti.
Ci vuole fare la lotta al supermercato per la quantità maggiore al prezzo minore, per lo sconto super, per la promozione della settimana. 
Senza farci chiedere nulla di più. Nulla su cosa voglia dire tutto ciò, su cosa finisce nel carrello, su quanto finisce nel carrello.

La società si adegua e si plasma al Mercato
E allora si mangia (anche se si pieni) e si beve, tutti insieme, per un'ultima (ma solo sulla carta) ricerca di piacere a cui non si riesce a rinunciare; a questa ne segue un'altra, e poi un'altra ancora. 
Antipasto, primo, secondo, dolce, frutta, dessert, digestivo. Una ruota che nelle feste (che dovrebbero rappresentare la vita, nonché il suo elogio e la sua consacrazione, quali matrimoni, nascite, compleanni, ricorrenze) viene esaltata e allargata a tutti, in un macabro rituale di abbondanza a dispetto di tutto e tutti (tanto poi il fisico si rimette in ordine, con corsa e cyclette).
Si assiste al trionfo della cultura della ricerca della soddisfazione del piacere (individuale e collettivo), che scombussola i reali bisogni (del mangiare per sopravvivere) e che intacca il rapporto con il cibo stesso.
La frase "e c'è gente che muore di fame" diventa lontanissima, quasi patetica.

Di contro, la lotta al fuoco del Mercato sembra impotente. Devastante nel suo essere senza voce di fronte alla differenza di livelli di forza. 
Il senso di colpa di fronte alla panza e alle cosce lievitanti diventa un continuo compagno-nemico, amato e odiato (perchè compreso nel pacchetto) e respinto a colpi di cheeseburger e coca.
E accanto all'appetito continuo e alla rincorsa per sedarlo, tipico della "nuova" società occidentale liberale, accompagnato dal trionfo di fitness per rimettersi in forma e di libri di ricette per creare piatti sempre più elaborati, si assiste alla decadenza della cultura e del rispetto verso e per il cibo.
Cadute morali che si devono confrontare, per di più, con la fame del resto della popolazione mondiale e con le ripercussioni ecologiche che gli abusi alimentari del Nord hanno sul Pianeta. 

D'altronde, pensando un secondo, è chiaro che le quantità alimentari di cibo mangiato incidano su quelle disponibili agli altri.
Se io mangio di più il mio amico ha di meno (anche se con grandi quantità a disposizione la questione non è un vero "problema"); figuriamoci se un popolo mangia di più in un sistema globale ove può accedere alle risorse degli altri (occorre solo avere i soldi per comprarle). La torta globale è una sola. Fetta doppia di qua, fetta a metà di la.
Ed è chiaro che incidono anche sul Pianeta e sugli ecosistemi che lo compongono. Il Mercato internazionale fa circolare ovunque le sue merci: ananas africani si mischiano a riso cinese, a salsa di soia giapponese e a manzo sudamericano. Ognuno dei seguenti cibi è il prodotto di un ciclo che spesso si ignora (o si fa finta di ignorare) e che spesso distrugge e schiavizza popoli e ambienti (si pensi solo alle monocolture africane di arachidi, a quelle sud americane di soia, a quelle asiatiche di riso, a quelle nord americane di mais, a quelle europee di barbabietole da zucchero e di frumento).

Forse solo pensando così per un minuto (e non per un solo secondo), e poi un'ora, un giorno, una vita, la visuale e il conseguente approcio verso la quantità di cibo da mangiare possono cambiare.
Questa può rivelarsi molto più importante di un semplice legame con la soddisfazione del desiderio.
Mangiar bene, mangiar sano, ma soprattutto mangiar in giusta quantità, possono tornare a essere i nuovi obbiettivi, con una visione più orientata al nostro benessere e meno alla ricerca della soddisfazione dell'ultimo sapore.
La classica preghiera pre-pranzo può trasformarsi nella scelta consapevole di quanto mangiare, in contrapposizione alla visione egoistica di alzarsi da tavola con il pancione pieno da scoppiare (con nel pacchetto una nottata a cercare di digerire).
Certo, scelta consapevole e nuove abitudini (maggior ponderazione di dolci, grassi e fritti) possono diventare impegnativi e difficili da attuare nel presente (pensare che sarebbe bello cambiare è un conto, farlo è un altro), ma che possono consegnare nuovi orizzonti, di benessere sia fisico che mentale.

Il discorso è sempre la stesso. 
Fermarsi e pensare
Pensare se è giusto riversare le insoddisfazioni della propria vita nel cibo. E se si vuol vivere per mangiare o se si vuol mangiare per vivere.
E che non ci siamo solo noi, che non c'è solo il nostro popolo e che c'è un solo pianeta (sembra demagogia, ma se si pensa da dove arrivano parte dei cibi che consumiamo diventa realtà). 
Che cambiare (le abitudini sbagliate e tutto ciò che non dà salute) si può e si deve. 
Che solo cambiando (nel caso tornando a mangiare il giusto) si può mettere la base per un futuro migliore.

lunedì 25 marzo 2013

Colin Beavan, il No Impact Man



Colin Beavan (in foto con la famiglia) è uno scrittore americano, nonché attivista ecologista, diventato famoso per l'aver vissuto un anno (nel 2007) a impatto zero
L'impresa è stata trasmessa durante tutto l'anno sul blog personale e ha riguardato tutta la famiglia Beavan, composta dalla moglie Michelle, la piccola figlia Isabelle e la cagnetta Frankie.
Alla fine dell'esperienza sono stati pubblicati il libro Un anno a impatto zero e il dvd con scene "live" dell'anno trascorso.

Il primo stadio che Colin ha affrontato è stato abolire i rifiuti. Le mosse escogitate per ovviare al problema sono state l'acquisto di cibo senza confezioni e imballaggi (e portato a casa con le proprie borse non usa e getta) al mercato locale o nei negozi biologici, il bere il caffè al bar o in ufficio portando con sè il proprio bicchiere, il non acquisto di cibo take away, la sostituzione dei pannolini della piccola Michelle con quelli in stoffa, il compostaggio domestico, lo stop all'utilizzo (e all'acquisto) delle lame usa e getta e delle penne in plastica.
Il secondo capitolo ha riguardato i trasporti. Colin ha viaggiato per un anno a piedi e in bici per le strada di New York, Michelle in monopattino, Isabelle sulle spalle di Colin e Frankie sulle sue zampe. Insomma niente metro, niente treno, niente ascensore e assolutamente niente aereo.
Per un anno (o quasi visto che questo è partito qualche mese dopo l'inizio del progetto) la famiglia Beavan non ha fatto acquisti di oggetti nuovi, ma solo dei negozietti dell'usato o dei mercatini delle pulci. Anche il risciò, ultimo mezzo di trasporto della famiglia è stato fatto costruire da Colin con soli pezzo usati.
Col passare del tempo il cibo a km 0, o meglio nel raggio di 400 km da casa Beavan, è diventato il cibo di casa e ha sostituito quello precedente all'inizio dell'avventura. Cibi di stagione e del mercato locale, farina e formaggio (carne esclusa causa l'impatto noto ambientale nelle emissione di gas serra) acquistati direttamente dal contadino; il tutto rigorosamente bio.
Il capitolo energia ha visto dapprima l'abolizione di tv, lavatrice e lavastoviglie, poi l'acquisto di un pannello solare (messo "abusivamente" sul tetto del palazzo) per alimentare il pc di Colin e qualche lampada e infine lo staccamento totale dall'energia elettrica (poichè su rete di New York che non produce energia da rinnovabili). L'uso di candele a cera d'ape e di vasi con acqua ove mantenere per qualche giorno le verdure hanno coronato l'avventura energetica, "tra le più dure", come citato da Colin.
Nel corso dell'anno Colin ha imparato a cucinare e fare il pane, lavarsi denti e capelli con il solo bicarbonato, fare il detersivo per i piatti e per il lavaggio dei vestiti e il sapone.

Durante l'esperienza Colin e Michelle sono andati regolarmente al lavoro, Isabelle all'asilo e Frankie a passeggio. I ritmi sono stati modificati per il nuovo progetto e la routine si è adattata, così come i tempi liberi e le fatiche.
Colin afferma di aver riscoperto il valore tempo libero (prima carente o poco piacevole, vero paradosso questo!), di esser tornato in forma fisicamente, di aver riscoperto i panorami dimenticati di New York, nonchè i sapori del cibarsi sano.
Michelle si è disintossicata dalle manie di acquisto compulsivo, ha perso i chili in più, e come Colin si è goduta maggiormente Isabelle, il tempo libero, la lettura.
E' stato un anno duro per la famiglia Beavan, ma con più pro che contro.

Colin, che durante l'anno si è iscritto in associazioni di volontariato ambientale locale ha partecipato a campagne per la raccolta dei rifiuti nel fiume Hudson di New York e per reinserimento sulle sponde di questo di molluschi per il controllo dell'inquinamento, gestisce il sito internet http://www.noimpactman.come la community on line di invito alla partecipazione attiva http://noimpactcommunity.org, ove invita chiunque a provare per una settimana a eliminare il proprio impatto ambientale.
Per ulteriori informazioni il suo sito personale è http://www.colinbeavan.com.

domenica 24 marzo 2013

L'altro costruire (epilogo): il "costruire comune" con il calcestruzzo



Il calcestruzzo è un conglomerato artificiale costituito da una miscela di legante, acqua e aggregati (sabbia e ghiaia) e con l'aggiunta, secondo le necessità, di additivi e/o aggiunte minerali.
Attualmente il legante utilizzato per confezionare calcestruzzi è il cemento, ma in passato sono stati realizzati calcestruzzi che utilizzavano leganti differenti come la calce aerea o idraulica. Raramente è stato utilizzato anche il gesso per realizzare calcestruzzi "poveri".

La notevole diffusione del calcestruzzo si è avuta con l'avvento del calcestruzzo armato. Il composto infatti ha ottima resistenza a compressione ma scadente resistenza a trazione e questo ne ha limitato l'uso per decenni.
La data di nascita del calcestruzzo armato è difficilmente individuabile, ma certamente è nel XIX secolo, grazie alla rivoluzione industriale che portò a un'eccezionale produzione dei due materiali costituenti: acciaio e cemento, che si è avuto la sua diffusione su vasta scala.



La messa in opera

Il calcestruzzo fresco viene gettato all'interno dei casseri e costipato con vibratori, ma esistono formulazioni moderne del calcestruzzo dette autocompattanti (SCC), fondamentali nell'architettura contemporanea in quanto assicurano un facciavista omogeneo e uniforme, che non richiedono vibrazione ma che si costipano per forza di gravità.
Il cemento, idratandosi con l'acqua, fa presa e indurisce conferendo alla miscela una resistenza meccanica tale da renderla assimilabile a una roccia.
È oggi utilizzato per realizzare le parti strutturali di un edificio ed è il materiale da costruzione più impiegato nel mondo.


Le proprietà del calcestruzzo


Il conglomerato cementizio, come tutti i materiali lapidei, ha una buona resistenza a compressione, cioè si comporta discretamente quando è sottoposto a sforzi di compressione, mentre il suo comportamento agli sforzi di trazione diretta o di trazione per flessione è notevolmente scadente.
Per questi tipi di sollecitazione viene sfruttato l'ottimo connubio con l'acciaioutilizzato sotto forma di tondini, a cui si demanda l'assorbimento degli sforzi di trazionedando origine così al materiale composito notoriamente indicato con il nome di calcestruzzo armato.

Il calcestruzzo armato sfrutta l'unione di un materiale da costruzione tradizionale e relativamente poco costoso come il calcestruzzo, dotato di una notevole resistenza alla compressione ma con il difetto di una scarsa resistenza alla trazione, con l'acciaio, dotato di un'ottima resistenza a trazione. Quest'ultimo è utilizzato in barre (che possono essere lisce, ma la legge le impone ad aderenza migliorata, con opportuni risalti) e viene annegato nel calcestruzzo nelle zone ove è necessario far fronte agli sforzi di trazione.


Le contro proprietà del calcestruzzo

Il calcestruzzo trattiene l’umidità, ha scarsa traspirabilità ed elevata conducibilità ed è facilmente aggredibile dagli agenti atmosferici
Per queste caratteristiche gli edifici in calcestruzzo hanno spesso problemi di condensa, di muffa (per il non rilascio all'esterno dell'umidità) e sono molto dispendiosi dal punto di vista energetico.
Gli edifici in calcestruzzo "interagiscono" poco con l'ambiente esterno. Il calore non vine assorbito e rilasciato dalle pareti come avviene con gli altri materiali naturali. Il calcestruzzo fa più che altro da scudo e da gabbia.

A causa delle difficoltà di posa in opera inoltre, nell’impasto vengono sempre inseriti degli additivi che da un lato riducono il rischio di formazione di pori e facilitano lo scivolamento all’interno delle casseforme, dall’altro hanno un forte impatto ambientale

In un edificio in cui la presenza di parti metalliche è molto evidente, si verificano due fenomeni: l’effetto Faraday e l’effetto “antenna”.  
Il primo consiste nello squilibrio del campo elettromagnetico naturale proveniente dal suolo  e dal cosmo, il secondo nell’alterazione del campo elettromagnetico artificiale prodotto dalle linee ad alta tensione, dai trasmettitori radio e tv ecc. Entrambi i fenomeni appena descritti, come dimostrano recenti studi, sono negativi perché determinano interferenze con il funzionamento cellulare degli uomini e degli esseri viventi in generale.

Il calcestruzzo, se non adeguatamente protetto, può essere attaccato da sali presenti nell'acqua di mare e nell'aria in prossimità delle coste, da acidi dei fumi industriali, dal fenomeno della carbonatazione. Esso risente inoltre delle variazioni di temperatura, ed in particolare è vulnerabile al gelo.
L'acciaio, se non ben protetto da uno strato di calcestruzzo (copriferro), è soggetto ad ossidazione, cioè tende ad arrugginirsi. L'ossidazione oltre a compromettere del tutto la resistenza a flessione dell'acciaio (che tende quindi a rompersi molto più facilmente) fa aumentare il volume dell'acciaio che può così rompere il calcestruzzo che lo ricopre e lo porta di conseguenza a sbriciolarsi.